"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Mimosas (Oliver Laxe)

Tuesday, 12 July 2016 11:32

Siamo tutti manieristi

Edipo Massi

Dis-install cinema! dicevamo appena due numeri fa. Quello che fino a poco tempo fa era l’ormai riconosciuto travaso di cinema nei musei e una spinta uguale e contraria da parte delle tendenze arty più disparate a ‘rivedersi’ al cinema (con l’unico vantaggio di finirla con l’equivoco che il cinema sarebbe un’arte - le minuscole sono volute – e non qualcosa d’altro la cui natura prima è che non gli è data possibilità di definizione), comincia a conoscere un’ondata apparentemente indifferente ai due percorsi (perché non ci sono più percorsi, ma solo ramificazioni) e semplicemente, pervicacemente solo concettuale. Non una nuova arte concettuale per carità, ma solo una gioventù impulsivamente attratta dall’esperienza fisica pura del fare cinema, e per questo sinceramente manierista, che si permette pure una certa consistenza narrativa, laddove poi ogni lato romanzesco viene prosciugato (e spesso proprio ‘freddato’) dal desiderio della performance (hanno già pure i loro padri ideali, da Raya Martin a Ben Rivers). Cos’altro è un film come Mimosas di Oliver Laxe se non un’ingorda salita al cielo, una messa a rischio pura, anche del senso (e spesso del montaggio, costretto a delle ellissi siderali – che peraltro salvano il film da se stesso – perché semplicemente la troupe, sottoposta a uno sforzo improbo rinuncia, abbandona, non filma più), cui vorrebbe veder corrisposta nello spettatore un’altrettanto fredda riconoscenza per tanto epico spreco nella peggiore delle ipotesi, e una disfatta ipnotica, un salto telepatico oltre le immagini nella migliore. Ora, non è che con questo ci si voglia limitare alla reprimenda nostalgica di sentieri simili e già ampiamente battuti, ma con ben altro istinto cinematografico, o comunque con una idea di avventura che partiva dal cinema e trovava nel cinema ogni sua ragione d’essere (vedi, che so, Deliverance di John Boorman), ma solo dire che l’indubbia bella follia (che conferma quella dell’esordio You All Are Captains, forse meno ambizioso, ma più diretto, più paradossalmente libero) che guida Laxe a passare mesi fra le montagne più impervie con qualche mulo e un pugno d’uomini ossessi che portano a sepoltura un cadavere dall’altra parte del mondo, sconta l’evidente programmaticità concettuale al punto da non intendere mai come essenziali le peregrinazioni del racconto, la combustione degli elementi (acqua terra fuoco aria), la battaglia spontaneamente ingaggiata nei confronti del mondo, cui pure si affida di continuo. Per paradosso il troppo aver presente che è dell’atto del filmare che il film parla, non permette al film stesso di spersonalizzarsi fino a trovare un’idea di cinema (così come la natura non indifferente che per tutto il film pone ostacoli a essere filmata, subisce a sua volta l’attacco un po’ ingenuo di Laxe che vorrebbe darle un’interpretazione sacral-religiosa fino al divino…). Tutto questo insomma c’è, ma sottovalutato. Esattamente come gli artisti sottovalutano il cinema.

 

 

Paterson (Jim Jarmusch)

Tuesday, 12 July 2016 13:22

A man like a city, a woman like a flower

Edipo Massi

Si può essere convinti della minorità del cinema di Jim Jarmusch (Paterson ne è solo l’ultimo esempio piccolo e fragile), almeno tanto quanto il regista in questione non teme di essere calligrafico, lavorando tuttavia sulla ripetizione e, letteralmente, sulla linea di combustione con cui la parola mangia l’immagine restituendole asciuttezza. Paterson – il famoso paesino americano dove soggiornarono Gaetano Bresci e Allen Ginsberg, e a cui il grande poeta William Carlos Williams ha donato l’eternità di indimenticabili poemi (“A man like a city and a woman like a flower — who are in love. Two women. Three women. Innumerable women, each like a flower. But only one man — like a city”: già qui c’è tutto Jarmusch, con un po’ meno di poesia invero) – diventa il fulcro dell’ineffabile rapporto fra vita quotidiana e sogno, fra materia dell’immagine e metafisica della parola. Anche il protagonista (è quel ragazzone un po’ sexy un po’ stonato perfetto in serial come Girls e un po’ meno nella coda stellare Abrams/Lucas) fa di nome Paterson, è un autista di autobus, si sveglia tutte le mattine alla stessa ora accanto alla sua giovane moglie leggermente border line, va al lavoro, scrive poesie prima del primo giro e durante la pausa pranzo, torna a casa per cena, porta a spasso il cane e si ferma per una birra nel pub del paese prima di andare a letto. Per una settimana. Dove non è che non accada nulla, ma è il nulla che accade sufficientemente misterioso da ispirare poemi anche a una bambina dodicenne, o a puntellare il paese d’una inquietante proliferazione di gemelli, e siccome non c’è speranza, allora c’è speranza (anche quando il simpatico cagnolino si mangia il quaderno con tutti i tuoi poemi, riducendo in briciole anni di accorte e vertiginose linee di parole). Anche per il cinema. È che l’elegiaco apologo, benchè affabile e giusto, manca di sconcerto, in questo d’altronde coincidendo con l’impianto narrativo a voler essere buoni, denunciando altrimenti l’incapacità a scardinare se stessi nel film a voler essere cattivi. (Chissà perché poi Jarmusch sembra prendersi più rischi col documentario su Iggy Pop Gimme Danger, dove genialità a parte dell’artista, l’incursione continua di fasci d’archivio dà finalmente l’impressione di una maggiore veemenza e una certa voglia di liberarsi e librarsi in volo). La verità è che Jarmusch teme l’imperfezione, e se come a Paterson col suo quaderno gli dicessero che una catastrofe ha bruciato tutte le copie di tutti i suoi film, al contrario del grande poeta di provincia, a cui basta la vista su una cascata e l’incontro surreale con un misterioso viaggiatore giapponese per ricominciare a scrivere, si suiciderebbe.

 

 

Dog Eat Dog (Paul Schrader)

Tuesday, 12 July 2016 13:01

Less than zero

Lorenzo Esposito

Ci sono corpi letterari di per sé a tal punto filmici, da richiedere al cineasta un puro esercizio di ekphrasis (che, si sa, è altrettanto e a sua volta avventuroso). Lo sa molto bene Paul Schrader, alle prese con l’Edward Bunker di Dog Eat Dog. Nulla da aggiungere a quella corsa a perdifiato volutamente sgraziata e violenta, segnatamente livida, tossica, anti-romantica che segna tutto il romanzo dello scrittore americano. Si fanno rapine e sequestri senza motivo, perché è la vita che è andata così. Si vive (appunto) senza motivo. Si muore per caso (o perché parli troppo e il tuo compare all’improvviso decide che non ce la fa più a starti a sentire e ti spara in bocca). Certo poi Schrader (che a dire il vero negli ultimi anni si è dimostrato il più eclettico sperimentatore di una certa generazione Usa), in perfetta continuità col magnifico precedente The Canyons, ci mette del suo in termini di quel suo peculiare realismo politico che quanto è più realistico e quanto più è politico, tanto più è visionario e sregolato. L’idea è quella di una società sotto zero che osserva se stessa annegare in apnea, graffiata e violentata da lampi e abissi di puro voyeurismo nei confronti dei suoi stessi fantasmi ciondolanti incerti sul da farsi. Non si tratta più tanto di ridefinire il noir (quella è la trita accademia), ma di verificare lo stato dell’immagine in un’epoca di dislivelli inquieti e inquietanti, dove i nostri occhi vengono al contempo svuotati e disseminati. Che fare di fronte a tale gittata emozionale e luminosa incalcolabile e insieme così misera e superficiale da lasciare senza parole? Schrader lavora sulle fratture dell’identità, non temendo di filmare nel punto in cui prevale ormai una sorta di morte in vita, ben poco accordata ai nostri desideri, pronta a fagocitare e non più a sostituire il nostro sguardo. In fondo è di nuovo e sempre in autofocus, interessato più al movimento funereo dell’essersi guardati che al godimento del vedere, perché è lì che si può arrischiare un’immagine di troppo che finalmente acceca e, quando si prova a riaprire gli occhi, si è ormai parte di un gioco perverso, malato, difettoso, che ti mangia l’anima nel momento stesso in cui ti seduce. Perciò c’è poco da compiacersi se all’aspro e freddo realismo di personaggi scritti per provocare ripulsa o indifferenza (tanto quanto essi stessi sembrano psicoticamente indifferenti al mondo che affrontano come cani affamati), si accompagna una tessitura pirotecnica di luci e formati e grane e bianconero/colore (che Schrader prefigurava già nel segmento di Venezia 70 – Future Reloaded andandosene in giro per New York indossando un sistema di braccia meccaniche multi-micro-camerizzate), visto che neppure questo livello è solo giocato come sponda barocca, ma semplicemente dato come corrusco flusso senza senso, anzi proprio rivolto a un al di là del senso, che alla fine, prosciugato lui e scarnificati noi, lascia intravedere, come sempre in Schrader, una scheggia di (corrotta) spiritualità. A pensarci bene è difficile trovare oggi nel cinema americano una tale concentrazione di rabbia e di lucidità (e frustrazione, si vedano tutti gli ultimi saliscendi produttivi di Schrader) definite tuttavia come inesausta possibilità di cinema. Ne riparleremo.

 

 

Lorenzo Esposito e Daniela Turco

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