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FUTURE OF CINEMA (4) - In My Room (Ulrich Köhler)

Sunday, 02 December 2018 19:00

Arturo Lima

Si levò anche il vento

Luci? (mi alzai sui pedali) : - : Da nessuna parte. (Come sempre in questi cinque anni).”

Così l’incipit di Specchi neri (Schwarze Spiegel) di Arno Schmidt (1951). Corsivi parentesi singhiozzi e abissi di punteggiatura sperimentale e il sapiente geniale andirivieni fra soggetto e oggetto (delle luci, forse; una bicicletta; la constatazione di essere solo; l’indicazione temporale). Non solo c’è tutto, ma c’è il tutto come intervento cifrato dell’invisibile che diventa a sua volta cifra, chiarezza dell’inspiegabile. L’ultimo uomo sulla terra da ben cinque anni. E che fa. Pedala. Vede, forse, delle luci. Ma non c’è nulla. Da nessuna parte. C’è solo il tempo (cinque anni). Come sempre.

Da parte sua l’inizio di In My Room di Ulrich Köhler (non tratto da, solo non ufficialmente ispirato, forse solo vagheggiante quel libro grande e introverso, uno di quel gruppo scritto con foga da Schmidt negli immediati anni dopoguerra con cui ha, senza retorica, semplicemente ridato dignità alla lingua tedesca martoriata sappiamo da chi), che sembra allontanarsi dalla combinazione estrema di dati di fatto e apocalisse meta-fisica (già tutta contenuta nella scrittura) di Schmidt, ne è a ben vedere l’interpretazione letterale. Altrettanto squilibrato, mostra una rete obliqua di fallimenti e solitudini: da un lato le dichiarazioni banali e balbettanti di politici qualunque, dall’altro le continue cadute di un operatore che non sa usare la videocamera e che alla fine non riprende nulla. Lo spettatore è messo di fronte all’incertezza di queste riprese sbagliate, non sa bene come valutarne la rude imprecisione, benchè a ben vedere non siano così lontane dal budello quotidiano televisivo e on-line. Ma la cosa è più semplice di così, c’è un operatore principiante o solamente distratto che invece di dare l’On dà l’Off. Piccolo grande sistema nero di ellissi e fratture che sarebbe invero piaciuto molto a Schmidt.

IN MY ROOM (ULRICH KÖHLER)Poi il film continua (o inizia per la seconda volta), altrettanto cieco o accecato, con altre banalità e altre stranezze: da un lato la solita vita notturna di Berlino (diciamo europea), si beve qualcosa, si rimorchia una fanciulla; dall’altro il passo falso di dirle, prima del sesso, nel pieno dell’ardore, qualcosa di poco ortodosso riguardo alla richiesta di poter usare il suo spazzolino, per cui la ragazza va via penosamente schifata.

Una lunga pedalata nel deserto metropolitano e nel deserto dei rapporti umani.. Ma la strada è ancora lunga e tortuosa. Ecco l’ulteriore rottura del ritorno a casa, nella casa fuori città dove tuo padre, che ora ha una nuova compagna, ti chiama perché la nonna sta morendo. Tutto è dolorosamente già visto, cupamente quotidiano, i soliti screzi famigliari, la morte che aleggia ovunque, il vuoto circostante del paesino grigio, tetro, la polvere dei ricordi, rimembranze d’infanzia che fatichi a riconoscere. Già qui la cosa intensa nella regia di Ulrich Köhler è la semplicità, senza ammiccamenti né sotterfugi, con cui introduce lo sguardo al passaggio temporale che ci è più familiare e insieme insopportabile, quell’avvilente inesorabile procedere che amiamo e che ci opprime, e di cui è soprattutto così arduo individuare le crepe, le screziature probabilmente vitali (esattamente la sfida della scrittura di Schmidt, un campo di forze assoluto che non smette mai di ricordare la capillarità dell’artificio che chiamiamo umanità, e che quindi procede per ripiegamenti abissali e placide suture, inviti al vuoto e inviti paralleli alla corsa e alla sosta).

Poi, e inevitabilmente, l’apocalisse. La mattina dopo la morte della nonna Armin entra in un bar, dopo una notte molto alcolica, per fare colazione, ma non c’è nessuno. Si mette in macchina, le strade sono vuote. Una stazione per la benzina, vuota. E in più le pompe per terra, macchine accese e abbandonate, macchine ai bordi della strada. Sul fiume un battello ebbro va alla deriva. Non c’è ma né perché. Armin è l’ultimo uomo sulla terra. Un silenzio assordante. Armin risponde con un tentativo di suicidio e una corsa folle in macchina in soggettiva, un viaggio nel tempo che termina con Armin a cavallo. Cinque anni dopo. Solo nella versione Schmidt però; Köhler non specifica nulla, la sua concezione del tempo, nel suo tremendo spessore, è qualcosa di già irrimediabilmente guasto, fuori sesto. Non c’è indicazione temporale, ma la capacità sorprendente di trovare subito un altro passo, molto bello, al limite del documentario, con l’attore dimagrito, asciugato, la nuova vita, il rapporto con gli animali, la caccia, uno strano sentimento liberatorio che - qui sí come Schmidt - evita qualsiasi epicità, preferendo il contrasto fra una realtà fredda e immobile e un incedere fatto di interferenze e alterazioni che rendono tutto più stranamente torbido (compreso il fatto che quel tipico trentenne o giù di lì dell’inizio, figlio di un’Europa moribonda, stanco di non si sa cosa e mai veramente cresciuto, rimasto solo sul pianeta terra è ora capace di costruirsi una casa, di procurarsi il cibo, di mettere su un complesso sistema di irrigazione, di riscoprire il piacere di leggere e, chissà, di vivere).

L’idea di Köhler è di procedere per progressivi e molto poco rassicuranti risvegli. Uno dei quali conduce dritto all’interferenza maggiore: la donna. L’arrivo di Kirsi rompe con la solitudine e restituisce speranza, idee, sensualità. Eppure ancora una volta non c’è alcun tono elegiaco. Si certo, i due si avvicinano e (forse) si innamorano, ma il percorso insieme sembra piuttosto un susseguirsi di sentieri interrotti (fra cui la bellissima scena in cui Kirsi vuole rivedere e piangere senza essere disturbata The Bridges of Madison County di Clint Eastwood - recuperato in una delle quotidiane scorribande post-apocalittiche nei negozi ridotti, o ricondotti, alla loro vera natura di cattedrali nel deserto – ma l’arrivo di gigantesco cervo nella casa interrompe l’emozione). Peggio, la presenza di Kirsi sembra risvegliare in Armin tutte le ottusità che lo caratterizzavano prima della misteriosa apocalisse, qualcosa che potremmo chiamare la sindrome dello spazzolino, che lo porta a commettere l’errore più grande, e cioè di non rispettare la richiesta di Kirsi di non venirle dentro quando fanno l’amore.

Ogni volta è come se Köhler inserisse un nuovo metodo di punteggiatura, in modo che il discorso stesso del film si riassesti continuamente, inventando differenti e imprevisti legami al suo interno. Eppure ogni evento accade e basta, senza particolari sottolineature, quasi sottotono, forse a voler ricordare l’enormità dell’apocalisse e al tempo stesso spostare la fine di ogni cosa su un piano rigorosamente anti-retorico. Infatti Kirsi non resterà. Il suo arrivo è misterioso, la sua partenza, legata al rifiuto di fare una famiglia, è quello che è. Inutile ricordare effetti alla Robinson Crusoe o cast away o appunto ultimo uomo sulla terra, il film lavora proprio a sottrarre tutto questo immaginario e a costruire la possibilità di un film parallelo. Dialettica maschile e femminile anzitutto, e poi tutto il non detto relativo a Kirsi, della quale non solo non viene raccontata la vita solitaria prima di incontrare Armin, ma che apre chiaramente a un out of my room una volta che si lascia Armin alle spalle. O ancora questo strano effetto di prolungamento del capitalismo inteso come il feticcio in noi (Romero docet), per cui né Armin né Kirsi riescono a fare a meno di certi oggetti e abitudini della vita precedente, godendo anzi una certa esaltazione data dal possesso illimitato e finalmente non legato alle possibilità economiche. E così via. È il modo duro e inconsueto con cui questo regista del futuro ci ricorda che non esiste sicurezza, ma regioni narrative inesplorate, sistemi visivi inesplorati, toni accidentati e imprevedibili.

 

 

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