"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

DORIS DAY

Wednesday, 05 February 2020 22:42

Edipo Massi

Non ho remore nel dire che Doris è legata al mio canto materno perduto. Credo che la canzone, quella canzone, mi venisse intonata in italiano. Lei la canta in spagnolo? In inglese? Ma ho ricordi confusi, forse sovrapposti (non senza qualche autoironia sono costretto a notare che mi chiamo Edipo). Doris al pianoforte. Doris che fa la ninna nanna a un bambino. O forse no, gli canta la canzone e basta. La donna che sapeva troppo. Qui l’ironia però è di master Hitchcock, che ci deve aver visto un’altra bella occasione per una nemmeno tanto sottaciuta black comedy. Mentre l’uomo che sapeva troppo è seriamente e drammaticamente preoccupato, Doris, così solare, ci aggiunge quel tocco di femminile geniale fatalismo (che poi le parole del ritornello - pensateci - potrebbero essere l’epilogo perfetto di qualunque discussione di cinema o su qualunque film). E qui entra in gioco la seconda madre. La curva della mia squadra del cuore. La curva più geniale di tutte, che nell’annus domini 1984, vista la piega negativa presa dal match (contro i terribili tedeschi del Bayern Monaco), se ne esce con la versione ad hoc e personalizzata (che sarà sarà ovunque ti seguirem ovunque ti sosterrem che sarà sarà) per la squadra che porta il nome della capitale d’Italia, per coccolarla e giurarle amore eterno, in fatale continuità con Doris e con l’umorismo nero hitchockiano, cantandola senza interruzione per quarantacinque minuti, rasentando la leggenda, tanto che chi c’era lo racconta ancora oggi ai figli con le lacrime agli occhi, forse per esorcizzare per la propria squadra quello che succede al figlio di Doris nel film (e per inciso i tedeschi vincitori uscirono dal campo frastornati e increduli e, diciamolo, sconfitti al di là del risultato). E mi scuso con Doris per averla portata in un campo che davvero non le appartiene. Ma col cinema è sempre così. Que sera sera.

MACHIKO KYŌ

Wednesday, 05 February 2020 22:34

Edipo Massi

 

Non sapevo che non si fosse mai sposata. Mi pare impossibile. O forse Princess Yang Kwei-Fei deve averla dissuasa. Troppo sacrificio. Troppo colore. Eppure già con Ugetsu Monogatari Mizoguchi doveva averla convinta che non si può fare a meno dei fantasmi, o del fantasma dell’amore. Forse è stato Kurosawa. È lui il colpevole. Le ha mostrato troppe possibilità, troppe diverse versioni della stessa cosa. O forse - parole di Kurosawa (Something Like An Autobiograpy) - la sua dedizione al ruolo era al di sopra di tutto (santo dio, non è facile essere stuprata da Toshiro Mifune). Ma il punto è che questa immensa attrice poteva con poco assorbire e riconsegnare all’immagine ogni singolo e contrastante carattere, in una pirotecnia di stati d’animo che potevano cambiare il volto intero di un film. Basta vedere il suo unico film americano (di Daniel Mann, con Marlon Brando e Glenn Ford!). Sembra che Princess Yang Kwei-Fei, per restare all’America, piacque a Eleaonor Roosvelt (ma questa è un’altra storia). Piuttosto, non credo che molti si aspettassero la deriva bad girl di Street of Shame. Ma lei poteva tutto. Bellezza violenta e archetipica insieme. Non dimenticherò mai il finale di Floating Weeds di Ozu. Un notturno senza fine, la stazione, un uomo e una donna che si danno un’altra possibilità. Machiko Kyō si alza e compra i biglietti. Sul treno apre una bottiglia. Bevono insieme. Il treno si allontana nella notte.

Mandy (Panos Cosmatos)

Sunday, 28 April 2019 21:00

Noia mortale

Edipo Massi

Poiché l’esistenza di questa rivista non si basa sull’evenienza che un film occupi una qualche posizione alta o bassa nel gran firmamento dei film, c’è qualcosa di così apertamente innaturale nella concezione (e nell’ambizione) di un film come Mandy di Panos Cosmatos (datato ormai più di un anno fa), che vale la pena spendersi brevemente. Le gare di rinvenimento di citazioni e successivi sarcasmi di chi se ne è occupato finora sono inutili soprattutto perché mancano ciò che davvero sembra continuamente in questo film cedere sotto la sua stessa fragilità (la quale a sua volta è anche l’unica cosa realmente affascinante). La lenta colata estetizzante nel mezzo di foreste che sembrano svaporare in un diluvio di rugiada (colonna sonora il cult prog ex-king crimson), l’ironica architettonica vita di coppia en plein air in una baita avveniristica, le voci che sfumano nella notte già presagendo l’oltretomba sanguinario che verrà, Nicolas Cage fuori luogo fuori posto, Andrea Riseborough dark e irriconoscibile: tutto - in questa che è senz’altro la parte migliore del film - è appunto quanto di più caustico e, volontariamente o meno, teso a un’irriverente danza attorno alla noia (quelli bravi qui parlano di psichedelia e di film sotto effetto LSD), che sia dato di recente vedere. L’armamentario post-mansoniano che segue è in fondo un elemento di pura normalizzazione, anche se l’approccio visivo è altrettanto umidamente corrusco, e nella notte di questa coppia di amanti (difficile dire se felici, diciamo fatali e fatalisti) l’ultra-violenza non viene giustamente risparmiata (e neppure la classica struttura che vedrà Cage vendicarsi con gli assassini di Mandy - gliela bruciano viva davanti - uno a uno, fino a che il sangue scuro che gli copre il volto non si unirà in un ultimo slancio pittorico allo schermo stesso). Per chi ha visto il precedente Beyond the Black Rainbow noterà come anche la concettualità ossessiva (e altrettanto ironicamente noiosa e oscura) sia andata smarrita, e così quell’idea di asciugare all’osso gli elementi narrativi immagazzinandoli tutti nella dimensione visiva (anche questa fortemente citazionista), che invece in Mandy risorgono drammaticamente oppure, a seconda dei punti di vista, stanno lì come puro sberleffo. Eppure la vena trascendentale rimane intatta, maniacale e onirica, facendo in fondo di questo film una vera e propria teoria del vintage, che a sua volta, per certi meravigliosi fissati di cinema, non è altro che esibizione malinconica della dannazione autobiografica (faccio un film come vorrei che fossero, oppure come ho sognato che fossero quando ero ragazzo e mi ammazzavo di film). E questo è un po’ meno noioso. Magari tenero, ingenuo, ma per nulla noioso. Si tratta di riottenere quello stato di alterazione delle visioni estreme e infinite durante la giovinezza, raggiungerlo superando i pericoli dell’inconscio e le minacce di controllo sociale (Beyond…) o religioso (Mandy), e restare, una volta per tutte, solo e protetto dalla propria ingenuità. Indipendentemente dalla riuscita o meno del film.

 

 

Samuel Beckett, Lettere (1929-1940)

Thursday, 06 December 2018 00:26

Amor intellectualis quo Beckett se ipsum amat

Edipo Massi

Di scoraggiante banalità dire che sembra – Beckett giovane – un personaggio dei suoi romanzi (sia gli impubblicabili del periodo in questione, che quelli a venire). Ma così è. Tutto comincia con una rinuncia bartlebyana: preferirei non insegnare (e all’epoca Beckett ha già una o due cattedre, già sa tutto, è questo che gli è insopportabile, e gli studenti ridono, ridacchiano, scambiandolo per chissà quale riferimento autoerotico, quando lui angosciatissimo - perché non si può spiegare un bel niente! - cerca di spiegare quello che definisce “suicidio ottico” in Rimbaud). Non si tratta di non avere riferimenti, ma di perderli. Da qui alla fine (dal 1929 al 1940, tecnicamente fra i ventitre e i trentacinque anni) impone a se stesso di riconoscersi e di negarsi in questa sola immagine: un albero sbattuto dal vento in giro per l’Europa di cui vorrebbe strappare le radici, ma il vento stesso preme sulla terra invece di scoperchiarla (ma manca poco anche a questo).

Il primo problema da risolvere si chiama Joyce/Proust. Col secondo si fa in fretta, l’analisi dettagliatissima è coadiuvata dall’immancabile scatologia, che a sua volta non è solo la bozza preparatoria all’eterna posizione Murphy a venire (corde legacci pipì feci erpes psichiatria: corpo martoriato perché questa è l’unica via per avvicinarsi a dire qualcosa sul suo spirito), ma proprio necessaria totale evacuazione: “ventre colicoso” le cui “sedute al cesso” siamo costretti a contemplare. E non si pensi che siano offese gratuite, Beckett sta parlando d’altro, qualcosa d’altro che anche Proust sa bene: scrivere, la fatica di scrivere, è la vera deiezione (i riferimenti sono continui ed espliciti lungo tutta la raccolta, uno per tutti in una lettera del 1930 in cui alcune sue poesie vengono descritte come “tre stronzi presi dal mio gabinetto centrale”). Va’ detto inoltre che il saggio su Proust si chiude con la parola defunctus.

Col primo (che Beckett chiama Penman) è un’altra storia. Lettere addirittura comincia con “Caro Mr Joyce”, sia la prima che la seconda lettera, relative al saggio che Beckett sta scrivendo su Work in progress (poi Finnegans Wake), molto apprezzato da Joyce e pubblicato sulla rivista “Transition”. E poi sottotraccia - accuse degli editori, commenti critici, assoluta autocoscienza del problema - puzza di Joyce ovunque, “a dispetto dei più convinti sforzi di dotarlo dei miei odori” (1931), e un accorato appello a se stesso un anno dopo: “Ma faccio voto di andare oltre J.J. pria di morir”. Detto fatto. Eppure. Qui non si tratta di discutere quel che è quasi lapalissiano, l’influenza di Joyce su praticamente chiunque pensi di scrivere qualcosa in quegli anni (figuriamoci per un così caparbio discepolo). Al contrario, quel che è difficile considerare è la portata dell’immediato e portentoso secondo “preferirei di no”, che solo per umiltà Beckett tace o finge lui per primo di non vedere, per cui fin dall’inizio nel confronto con Joyce si tratta piuttosto di pura profanazione, geniale tradimento, paurosa capacità di imboccare una strada tanto impervia quanto deviante. (Sia Beckett che The Penman schifavano il joycianesimo dei contemporanei, ça va sans dire). Il suo nome è Murphy, semmai il più arguto lavoro di depotenziamento mai visto. Semmai kafkiano (uno che lo ha capito, anni dopo, è Cortazar, nelle folgoranti pagine-citazione dell’ospedale psichiatrico di Rayuela). Semmai ironicamente freudiano (senza contare il rapporto davvero torbido con la figlia di Joyce, a sua volta abbonata a incursioni psichiatrico-ospedaliere).

E se l’origine - Dublino questa eterna tremenda amatissima nemica - è la stessa, e procura la medesima “rabbia stanca, astratta” che invita alla fuga, la risposta di Beckett è più affine a un movimento laterale, una specie di schivata assoluta e rocambolesca insieme, progetto di vagabondaggio e solitudine cui solo le lettere, il cui gettito è strenuamente mai interrotto, pongono un limite. E allora: “Questa vita è spaventosa, e non so come si possa sopportare” (1930); oppure l’estrema propaggine del progetto bartlebyano consegnato al fido Thomas McGreevy: “Comunque nulla è più allettante dell’astensione. Una bella vita tranquilla costellata da esoneri volontari” (1931); o ancora (1932): “[…] gran parte della mia poesia […] fallisce proprio perché è facultatif”. (Uno di questi esoneri, sia detto per inciso, è una lettera datata 2/3/36 a Sergej Ejzenštejn dove lo prega di “essere ammesso alla Scuola statale di cinematografia di Mosca”, e nella presentazione si dice “ho lavorato con Joyce” e, dopo aver precisato che gli “interessano di più gli aspetti di sceneggiatura e del montaggio” si chiude col mirabile “la prego di considerarmi un cineasta serio”. Mentre poco prima nello stesso anno magnifica Pudovkin e Arnheim e ha questa fascinosa speranza che un film sonoro technicolor come Becky Sharp - Mamoulian! - un fiasco nelle sale dublinesi, abbia molto più successo in modo “da creare una riserva per il cinema muto bidimensionale, affossato non appena emerso dai suoi rudimenti”. Da qui a Film scritto per Keaton nel 1964 il salto è naturale).

Ora, quale astensione ed esonero volontario più assoluti e visionari che, in pieno nazismo, partire alla volta della Germania per una visita squisitamente turistico-culturale. Qui Beckett dà il massimo come uomo come scrittore come cineasta. Sono pagine incredibili, che necessiterebbero di ben altro spazio e tempo di riflessione, fondamentali per comprendere questo vero e proprio sacrificio e sforzo di guardare sotto la coltre delle cose. Beckett alla ricerca di strutture architettoniche e artistiche che il nazismo si ossessiona a cancellare. Beckett che visita musei e convince impauriti direttori a mostrargli dipinti esclusi dalle collezioni perché “arte depravata” e viene fatto scendere negli scantinati dove si alzano lenzuola bianche e cominciano visite private sottoterra. Beckett che contatta giovani artisti che vivacchiano in superficie come se fosse un altro caso di sottosuolo. “L’integrità delle palpebre che si abbassano prima che il cervello si accorga del pulviscolo nel vento“.

 

 

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Al di là dell’uno (Anna Marziano)

Monday, 27 November 2017 10:17

Edipo Massi

Gli uni stanno nell’ombra, gli altri nella luce

Ecco un film (Toronto, “Wavelenght”) vissuto e visto dall’interno, che setaccia se stesso in filigrana, che disegna, fra trasparenze e controluce, la strana ronde di relazioni alterate che lo compongono o di cui si vuole far comporre. Non è nuova a questa procedura quasi tattile la regista Anna Marziano (si veda Variazioni ordinarie dove la parola letteralmente si installa come virus che mette in circolo le immagini, oppure Orizzonti Orizzonti che rilascia storie per aprire e chiudere spazi come membrane). Inocula un tema spogliandolo del suo stesso contenuto e trasformandolo direttamente in premura filmica. Qui l’amore, anzi la fine dell’amore, anzi la riattivazione in forma di memorabilia di qualcosa chiamato amore. La malinconia di ciò che resta dopo il massimo dell’attrazione possibile filmata però come una folata di vento, una corsa verso un futuro confuso e libero insieme. Al di là dell’uno è una sorta di concentrato di intensità, di alterazioni furtive di e fra le immagini, prima ancora che fra le persone convocate a raccontare, a parlare. Nel titolo è già contenuto questo salto oltre se stessi, la presa di posizione che mina le sicurezze del singolo e rischia o invita a rischiare di nuovo, a disseminarsi invece che a chiudersi in una convalescenza infinita. Salti e tuffi sonori e di grana (16mm e super 8), voli geografici da un capo all’altro del mondo (Francia India Germania Belgio Italia) sviluppano su un piano atmosferico ciò che sembra di continuo scivolare e in qualche modo rendersi indiscernibile nell’inconscio. Solo apparentemente frammentario, e invece aperto a farsi travolgere da un’unica linea conflittuale, dove i conflitti presenti e passati sono altrettante figure visive, altrettanti passi sonori. Non a caso è centrale la lettura di Brecht, laddove saggio e poesia si intrecciano innescando però una battaglia delle idee che vorrebbe liberarli di orpelli pur mantenendone intatta la struttura politica. Eppure il fraseggio della Marziano è sommesso, schivo, come quando si diffida di ricordi che si credevano superati e che d’improvviso risalgono dal fondo. Le voci – talvolta lontane giaculatorie, talaltra grida soffocate (bellissima, in italiano, la telefonata che registra su una segreteria la rabbia, quasi la lotta disperata contro la distanza che separa due amanti) - sono quasi sfocature nel flusso di memorie, e sembrano porsi su un differente piano spazio-temporale, fuori sinc, devote piuttosto all’immagine muta, alla potenza del silenzio. Che parli da sé, cha faccia da sé tutto questo passato che non vuole andarsene e che insiste a tornare in scena. Che si faccia lui il proprio film.. E mentre gira imperterrito da sé la Marziano cuce e ricuce, aggiunge tasselli, inventa un mosaico fatto di segreti evidenti e di verità nascoste. Verità. La verità è che c’è un cinema italiano tanto appartato quanto elettrico (si vedano in questo speciale i casi altrettanto atipici di Palladino e Columbu), che ritorna a porsi il problema del corpo stesso dell’immagine, di come vada o si possa concepire un film filtrandone l’immancabile rete socio-antropologica che pure aziona il narrativo. Per Anna Marziano questo discorso sembra coincidere con la messa in scena - proprio con il ritrovamento - di un respiro, insieme dolce e affannoso, che dia ragione della duplice tendenza dell’umano verso l’altro e verso la solitudine. Ciò che è intimo viene in qualche modo aperto, squadernato in una miriade di tracce e conversazioni al tempo stesso infinite e interrotte, ma tutte parte di una fisica mutevole, di un precipitato morbido, sospeso, in cui qualcuno vedrà una fine, qualcun altro una speranza.

 

 

INTERZONE – Francesco Totti

Thursday, 20 July 2017 09:45

  

 

 

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