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CINEMA PSYCHODRAME (1) - Jonas Mekas

Sunday, 28 April 2019 10:15

Lorenzo Esposito

Our hearts jump forwards, my friends!

I’m standing in the middle of the Information Highway and laughing –

 

Così Jonas Mekas, alla sua maniera, su un foglio-poster scritto a macchina intitolato Anti-100 Years of Cinema Manifesto. Rido perché, continuava, da qualche parte il battito delle ali di una farfalla posata su un fiore sta cambiando il corso della storia. E concludeva:

 

the real history of cinema is the invisible history –

 

Non è solo per la sua recente scomparsa, che questa rivista, da sempre coinvolta nel movimento febbrile di cose sparite (compresa, trattandosi di Mekas, l’idea stessa di rivista), fa o vorrebbe fare di questa sorta di teoria dell’invisibilità del cineasta amatore lituano il ronzio incessante, come una bolex perennemente in funzione, in grado di procurare squarci (in forma di piccoli grandi psicodrammi) sul muro nero e sempre più invalicabile cui sembra destinato il tessuto invece splendidamente difforme del mondo e dei rapporti umani. C’è una trasparenza possibile, Mekas lo aveva capito, proprio nel punto in cui tutte le immagini sembrano affollarsi confuse e svuotate di senso. Da qui si riparte.

 

Così sul piano dell’assunzione di invisibilità, cioè della possibilità pura - secondo caposaldo di questo numero - non si può prescindere dal miracoloso Rossellini ritrovato, che proprio Psychodrame si intitola. Psicodramma, nella visione rosselliniana molto più che in quella ‘terapeutica’ di Moreno (si veda su questo aspetto l’intervento di Naked), è da intendere come rispetto e ricerca assoluti dell’essere umano (proprio: della sua umanità smarrita) attraverso la risalita dal fondo delle sue messe in scena ‘invisibili’, che in quanto tali si spiegano da sé (pur essendo a tal punto inclassificabili), senza bisogno di alcuna dimostrazione. Si tratta di uno scavo capace di rinvenire (il verbo giusto, nel caso di Rossellini, è sempre e solo mostrare) in qualche luogo e in qualche cuore ciò che resta intatto, nonostante l’assedio tremendo di forze interessate alla sua disintegrazione, del soggetto e della sua verità (come ben spiega Roberti a proposito di High Life, il nuovo film di Claire Denis, una che di cuori malati e di battiti incongrui ne sa qualcosa).

 

Per Rossellini questo processo avviene all’alba della trasmigrazione televisiva, ossia all’inizio di quella sorta di sparizione (oggi sappiamo non sua, ma del cinema medesimo) che non fu certo rinuncia, quanto invece definitiva apertura e disseminazione, col cineasta che non gira più ma fa girare immagini per il mondo, occupandosi piuttosto di riedificare, mattone dopo mattone, le zone labili della storia e quelle fragili della memoria, scoprendo spesso, come appunto farà Mekas, che non spegnendo mai la caméra, non smettendo mai di filmare, quelle immagini girate, trattengono una verità e una chiarezza (pur mutanti, pur giustamente sottoposte alle continue mutazioni dell’occhio), che ne fanno una coscienza reale materiale e non aggirabile: l’arco della storia che porterà Rossellini dall’India all’osservazione microspopica della vita cellulare; e Mekas da un diario scritto in un campo di concentramento tedesco al diario perpetuo incandescente del filmare in sé, dove la disarticolazione della sua come di tutte le autobiografie è tale perché sintomo di un’unità utopica del mondo e delle anime che lo abitano, a loro volta non separabili dalle proprie sublimi irregolarità.

(Per inciso: basta soffermarsi velocemente sui dieci nomi ai primi dieci posti del tradizionale gioco dei migliori film dell’anno, per riconoscere, da Godard a Bressane a Hu Bo a Wiseman a Gianikian, dieci viaggi e dieci cineasti del tutto affini ai due lumi nella notte di cui si sta scrivendo).

 

 

Forse - lo si dice senza alcuna deriva paternalistica - potrebbe essere un’idea fare vedere i film di Mekas nelle scuole. Solo per riflettere sulla possibilità che l’odierno inestricabile e inestricabilmente isterico connubio fra solitudine dell’Io e sua indebita frenetica esposizione, non debba per forza coincidere a sua volta con l’articolazione (determinata a disarticolare, a cancellare, a isolare) altrettanto tenace e pervasiva di strumenti di ripresa, e che tutte queste ineliminabili illusioni possano concepirsi secondo un uso del tutto opposto. Non si è mai notato abbastanza come nel suo film più apertamente determinato e insieme spericolato nel volere ricostruire la tempesta elettrica di una vita privata filmata senza soluzione di continuità per trent’anni, Mekas insiste a interpolare, duro e ironico, un unico ossessivo cartello che recita: this is a political film. Si sta parlando di As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty, che giustamente, mentre scrive dello stupefacente e disperato diario interiore di Frank Beauvais (Ne croyez surtout pas que je hurle) che sogna finalmente di entrare a far parte di tutto l’anonimato e l’impersonalità con cui più di un secolo di film ci sovrastano e ci sostanziano a un sol tempo, Erik Negro indica come vero film terminale del millennio passato (ce ne sono due invero, ed entrambi squadernano l’universo con la semplice mossa di mettersi al centro della deflagrazione pura e continua che chiamiamo nucleo familiare: Mekas e Kubrick, Occasionally I Saw e Eyes Wide Shut, praticamente lo stesso titolo).

 

MEKASQual è dunque l’intuizione di Mekas giunta a inaugurare (siamo nel 2000) un ventennio che definire come letteralmente posseduto dalle autostrade informatiche, di cui qualche anno prima come si è visto lo stesso Mekas avvertiva che se ne poteva solo ridere, è appena un eufemismo. Qual è questa diversa sollecitazione, questo approccio etico e conflittuale insieme alla germinazione stessa delle immagini, tale da liberare e riaffermare (anche in senso puramente didattico, laddove di nuovo Mekas e Rossellini si toccano) lo sguardo e l’azione stessa del guardare. Anzitutto proprio nel giro di vite ininterrotto di camere e camerine, schermi e schermini, indiscrezioni grandi e piccole, vere e false dall’interno di vite sbrindellate e tese a una sempre più avanzata disintegrazione. Ebbene, l’occhio eternamente filmante di Mekas, si muove in una direzione del tutto contraria: non ha alcun obiettivo né mostra alcuna fascinazione per il controllo; non è minimamente interessato a un’eventuale posizione voyeuristica; soprattutto, quanto più registra, quanto più coglie istanti perduti nel tempo, smarriti nel momento stesso che li vede accadere, tanto più prende in considerazione la seria possibilità di non-esserci, cioè appunto di star sempre lavorando con dei fantasmi, ossia ancora di poter essere rimesso in circolo, le riprese di poter essere riosservate e rilavorate e mutate in un futuro che allora esisterà come lancinante psicodramma della memoria. Mekas prova a spiegarlo, lui stesso stupito, durante le sedute notturne di montaggio, di fronte ai bagliori di chiarezza custoditi in queste immagini umbratili e crepuscolari che credeva di avere dimenticato: il metodo di non spegnere mai la caméra (per decenni!), di farla reagire d’istinto agli avvenimenti, prevede, anzi presagisce, che il successivo lavoro di montaggio, consapevole di non poter ridare l’esattezza di quell’attimo di vita vissuta, possa però, un taglio dopo l’altro, riottenere la naturalezza delle reazioni e delle variazioni, cioè la sublime ineffabilità e anti-programmaticità della vita (si veda qui come, per altro verso ma con il medesimo punto d’arrivo, Lattimer affronta l’urgenza interna, il montaggio psicodrammatico fatto di slanci e di rivolte interiori del potentissimo e mai così romantico nuovo film di Angela Schanelec, il cui titolo, I Was at Home, But, possiamo con evidenza ora dire quasi mekasiano: I Had Nowhere to Go).

 

(Warhol per esempio è un caso meno malleabile e forse ancora non del tutto verificato, perché arriva a conclusioni simili partendo tuttavia da un assunto al tempo stesso più impervio e di minore umanità. Si prenda un film come Chelsea Girls, tutto è messo in scena, tutto è riversato sulla tecnica, tutto è performance, i corpi ripresi, le riprese e finanche la proiezione, eppure l’unico progetto è di sfiduciare questo apparato, disinnescarlo, svelare ciò che della vita attiene alla menzogna per avvicinarsi alla verità).

 

Certo, il problema resta questa forma di iper-egotismo che sembra penetrare ogni singolo istante delle vite di ognuno. È anche forse il problema di tutto il cinema contemporaneo, di chi filma, di chi scrive, di chi programma. Forse è l’unico problema, non ce ne sono altri. Lo stesso Mekas parlando di Walden diceva: “Anche quando non ci sono nell’immagine, sono io l’unico protagonista, che voi mi vediate o no”. Ma la differenza, come anticipato, è proprio nel non-esserci, cioè nella posizione ritenuta da Mekas di maggiore presenza e, di nuovo, verità. È proprio l’idea del film che passa fisicamente attraverso il regista a disancorarlo dall’Io e a metterlo in circolo negli sguardi altrui. Ecco perché la tecnica di ripresa di Mekas si basa su continue rimodulazioni di ciò che si vede, quasi a voler bruciare i contorni di persone cose e luce, fino al punto, nell’inarrivato prodigio As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty, da fare in modo che l’unico protagonista sia il riassemblaggio stesso di anni di filmati, avanti e indietro nel tempo, salti vertigini loop irregolarità malfunzionamenti accecamenti fino a raggiungere una dimensione astrale molto vicina alla forma bucata e espansa della memoria (attenzione a quanto di questo impareggiabile lavoro, che se ne sia consci o meno, si sia via via depositato in opere affatto lontane e del tutto appartenenti a un differente universo culturale, ma dotate della stessa capacità di toccare l’invisibile proprio laddove si fondano su un surplus di interconnessioni: è il caso, come spiega bene Nazzaro, dell’incredibile Spider-Man: Into the Spider-Verse; mentre Eduardo Williams - si legga Abiusi - opta per un tuffo totale e incondizionato nell’imponderabile dell’incosciente mekasiano. Photogénie de l’impondérable - ecco perché, fra l’altro, il ritorno a Jean Epstein).

 

 

Poi, e questo è irripetibile, la storia del battito intimo e siderale di una vita intera, oltre all’origine epifanica joyciana e alla forma letteraria del diario, ha l’unicità di essere depositata su pellicola (eppure cosa faceva Mekas in fuga per l’Europa nazista se non prendere nota di tutto? Non era già quella una forma di resistenza ultraterrena e anti-letteraria? Sarà per questo che Douglas Gordon, quando ne deve dare forma filmica, sceglie il nero assoluto). Quando Mekas vi riattinge, scopre che è come riattivare la circolazione di un corpo alieno, i cui glimpses of beauty coincidono non a caso con i momenti di maggiore stupore di fronte a un se stesso al nitrato quasi non riconoscibile, la cui residua affinità con l’umano si addensa dove tutto è ormai estraneo. Estraneo, e perciò vero. Trasponibile su piani temporali sterminati, sottoponibile a dissezioni estatiche che procedono a una sorta di vera e propria divinazione, umanità nuova generata da quella aliena che formicola sulla pellicola (e che forse un tempo ha mosso qualche passo sulla terra). Esattamente il contrario dell’Io esibito e alterato dei nostri giorni, il contrario dell’autobiografia, qualcosa definitivamente altro da sé (ed è ciò che avviene nello straniante e magnifico esperimento live di Henri Langlois, Montage muet français Palais des Congrès, mostrato di recente a Rotterdam e di cui si occupa di nuovo Negro a chiusura di questo numero: massima dispersione e impersonalità di tutte le immagini come unico aggancio possibile all’eternità).

 

 

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