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THE LAST THINGS BEFORE THE LAST (5) - La mafia non è più quella di una volta (Franco Maresco)

Sunday, 07 June 2020 12:41

 

 

Naked

La macchina ammazzacattivi di Franco Maresco

Franco Maresco is the most important director in Italy of the last 30 years. No doubt. At the beginning in couple with Daniele Ciprì, he realized the most intense philosophical and apocalipthic cinema in Italy, innovative and classic at the same time. I write these few words in English only to tell as much people as possible that it’s important to watch Maresco’s films and not what I have to say about them, as it is already very difficult for me to write about them in italian. Among Maresco’s opera you will find another vision of italian criminal organizations, different moods and feelings compared to the “smart” italian cinema showed in big festivals, a different landscape from the scenographic films for tourists.

 

Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte. Per quelli che conoscono l’opera e il pensiero di Franco Maresco non aggiungerei altro a questo che è il titolo dell’ultimo dei diari intimi di Giuseppe Rensi, apologeta dello scetticismo e sublime critico di Leopardi. La mafia non è più quella di una volta oltre ad essere il lato B di Belluscone Una storia siciliana, la sua continuazione (il titolo sono le ultime parole di Ciccio Mira nel film del 2015) come in un concept album in vinile, è l’ultimo capitolo realizzato da un uomo che non perde il vizio del pensiero e nonostante la cosa gli provochi infinite pene e dolori non può permettersi di non guardare, esatto opposto di Orfeo, per amore e cura delle persone care che ha in questo inferno. Maresco è tornato, dopo la sparizione che era il centro della storia precedente, continua a cantare i mali del mondo perché non può permettersi di sparire, è costretto a rimanere e come con i grandi musicisti (lui che con Carmelo Bene è il più musicale dei registi di tutto il cinema italiano di sempre, la loro voce è l’aria dei loro mondi) più grandi sono le pene, gli sforzi e la dedizione tanto più forte e ammaliante ci risulta l’ascolto.

Maresco scende ancora nel ventre di Palermo, la sua “bella e tormentata terra”, in occasione della ricorrenza degli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino, martiri della lotta alla mafia della Repubblica Italiana. Ad accompagnarlo in questa nuova avventura ci sono Letizia Battaglia e Ciccio Mira, nomi che sembrano usciti dalla penna di Scaldati, due sue vecchie conoscenze (Ciccio è il protagonista di Belluscone, di Letizia Franco ha fatto un magnifico ritratto nel 2016 intitolato La mia Battaglia), una coppia impossibile che infatti non si incontrerà mai durante il film. Letizia, la mitica fotografa palermitana che ha raccontato le guerre di mafia quanto la dignità e la fierezza delle donne e degli uomini di Sicilia, una donna forte bella viva con i suoi capelli rossi che traboccano passione, una donna che ancora battaglia e conserva la capacità di indignarsi e desiderare, che non vuole arrendersi a quello che lei chiama lo scetticismo di Maresco.

Dall’altra parte Ciccio, l’impresario dei cantanti neomelodici che allietano i quartieri più poveri e disperati di Palermo e leniscono la pena degli ospiti dello Stato, menestrello nelle feste degli amici, filmato in bianco e nero, esempio di (s)cultura mafiosa, lucido impassibile e imperterrito mira sempre qualcosa e come Letizia non vuole arrendersi alla visione nera mareschiana. Il viaggio di Franco è proprio portare i suoi amici ad ammettere il fallimento, unica conclusione possibile, a inchiodarli nella loro solitudine di fronte al fatto che anche i loro mondi sono spariti per sempre, la loro condizione è la stessa del regista. Gli slanci di Letizia si schiantano di fronte alla manifestazione in ricordo dei giudici uccisi che dopo 25 anni è diventata una sagra dell’antimafia, le sue speranze si frantumano sotto la statua di Don Pino Puglisi che somiglia a Berlusconi, che l’unico Orlando paladino di Palermo resta quello del Cunto, la sua fiducia nello Stato crolla di fronte al silenzio delle autorità e della “società civile” quando si arriva finalmente a sentenziare definitivamente l’esistenza di una trattativa tra la mafia e la Repubblica Italiana. Letizia rimane sola come un personaggio di Beckett, con la sua macchina fotografica che pende sconsolata, cosciente che lo spettacolo ha vinto, ma è costretta a continuare il suo personaggio, a essere Battaglia.

D’altro canto Ciccio deve prendere atto che non solo la mafia non è più quella di una volta, ma lui stesso non riesce a convincere i suoi cantanti migliori né il popolo che ha sempre affollato i suoi show che è giunto il momento di sfruttare il brand antimafia, che oggi “no alla mafia” si può dire perché come tutto non significa niente. Anche Ciccio rimane solo, lo abbandona persino il fedele Mannino, il suo Sancho Panza, che impazzisce o fa lo scemo per non andare in guerra, finanche quando di fronte all’ufficialità del rapporto Stato/mafia abbandona ogni senso del pudore e dell’onore e decide di organizzare un concerto per celebrare l’Italia e il suo concittadino che ne è a capo. Sotto al palco non ci saranno che un bambino che lo insulta e un altro che assiste solitario.

L’impotenza della ragione di fronte al silenzio assordante intorno alla sentenza provoca reazioni diverse nei nostri due personaggi, se Letizia non può chiudere gli occhi e quindi registrare la realtà raggelante che la circonda restando pietrificata, Ciccio ne fiuta tutta la potenza mitopoietica e sprigiona tutte le sue capacità di affabulazione. Inizia così nel film un racconto fantastico, un cartone animato in bianco e nero di un’ucronia in cui Ciccio e il Presidente Sergio Mattarella si conoscono da quando erano ragazzi, anzi erano amiche proprio le loro famiglie conosciutesi per volere del caso in seguito a un incidente scaturito da un’incomprensione finita a pistolettate che era iniziata con un’improvvisata gita a Mondello una domenica sera d’estate per mangiare un polpo… Alla fine della storia Ciccio mira solo a chiedere la grazia, cosa che fa poco onore a un uomo come lui, per un suo congiunto finito ospite dello Stato, e per questo organizzerà nel difficile quartiere dello Zen 2 una serata celebrativa del Presidente palermitano. È il momento più arioso del film, l’unico in cui Maresco ci concede di respirare, fa sparire il mondo atroce che abbiamo visto per tutto il film, che qui svela la sua natura fiabesca, ma questa fiaba nerissima per un momento si sospende, si abbandona alla fantasia, ci trasporta, deborda nel sublime. Forse questa sensazione liberatoria è data anche dal conforto che almeno questo non è sicuramente vero, è un cartoon, un omaggio alle strisce americane “classiche” degli anni ’30-’40, è satira che tende all’assoluto, più poetica che cattiva. Questa è la sequenza escatologica dell’opera che comprende Belluscone e La mafia non è più quella di una volta, un apologo sull’immanenza del male e la conseguente malvagità, i cattivi torneranno sempre, anzi saranno ancora peggiori. È La macchina ammazzacattivi di Marotta, Eduardo e Rossellini, una fiaba meridionale con il fotografo buono, la rossa Letizia come Celestino, costretto a constatare l’impotenza della fotografia come delle altre arti prima nello lotta contro il male, quel Diavolo che si cela sotto ogni forma, si manifesta inaspettato, che quando ti accarezza vuole l’anima. Se Rossellini a Cannes nel ’77, poco prima di morire ancora convocava luminari per interrogarsi su come è possibile eliminare il male, Maresco parte già dall’assunto che questo è ineliminabile. L’Italia rurale, povera e spietata del film di Rossellini è mutata nella società dello spettacolo vista da Debord, un mondo realmente rovesciato dove il vero non può che essere un momento del falso. Tutto il film gioca su questo aspetto, lo spettatore è portato a chiedersi in ogni momento quanto ci sia di “vero” e a sognare che sia tutto falso, sia soltanto un film. Il fantasma di Guy Debord attraversa tutto il film, Maresco ne parla esplicitamente in alcune interviste, e tra gli strati delle macerie della società spettacolare affiora anche il Debord più nero e disperato del finale di In girum imus nocte et consumimur igni: “È diventata ingovernabile, questa “terra guasta” in cui le nuove sofferenze si travestono da vecchi piaceri; e in cui gli individui hanno così paura. Girano in tondo nella notte e sono consumati dal fuoco. Si svegliano sgomenti e cercano brancolando la vita. Corre voce che coloro che l’espropriavano l’abbiano, per colmo, smarrita. Ecco dunque una civiltà che brucia, si rovescia e affonda tutta intera. Ah! Che bel siluramento!”

È un J’accuse doloroso quello di Maresco, è la richiesta di un momento d’onestà, fiero e rabbioso come quello rappato dai Co’Sang nel 2009: Voi fate i nomi del sistema e no chill’ r’o Stat’ accusava la “poesia crura” della coppia di Marianella e il bersaglio era proprio il cinema. Maresco non ha paura, non si abbandona alla fiction e non si appassiona alla cronaca, non vuole scandalizzare ma far riflettere, si oppone con forza al processo di rimozione che la società italiana mette in pratica da centinaia di anni, accompagnando ogni colpo di mano a un colpo di spugna. Negli ultimi mesi la stampa italiana ha iniziato a dare come fatto ormai acclarato il prestito di 20 miliardi di lire elargito dalla mafia a Silvio Berlusconi, alla base ci sono le dichiarazioni del pentito Mutolo e questo è il nocciolo della questione posta in Belluscone qualche anno fa. Non c’è dubbio che tra qualche tempo si darà come assodata l’esistenza di una trattativa e conseguente patto tra la Repubblica Italiana e la mafia, la questione posta da La mafia non è più quella di una volta, una sentenza epocale, che punta il dito a una delle questioni storiche del Paese…ma sarà sempre fatto così, en passant, parole nascoste in articoli finalizzati a segnare l’emergenza o l’eccezione del momento.

Nel mondo automatico l’eccezione è Maresco, che ha finanche conservato la capacità di indignarsi e non ha perso il vizio di pensare: è un pensiero onesto e feroce il suo che si unisce a quel dono di “poter vedere” che fin dall’antichità gli dei raramente concedono. Come Tiresia e Cassandra Maresco ci sbatte in faccia il male che siamo e che facciamo, avverte della fine imminente della nostra civiltà, ci mostra lo sfacelo morale della nostra società, Troia avvolta tra le fiamme. È sotto gli occhi di tutti quello che era apparso evidente a pochi ora che lo zio è arrivato da Brooklyn, le strade sono vuote, dominano la malattia, la distanza sociale, la solitudine e il deserto delle emozioni.

Ma come per tutti i veggenti Franco Maresco accompagna al dono maledizioni: egli ad ogni lavoro non solo spesso non è compreso né tantomeno creduto ma è perseguitato dalla cattiva sorte che si tramuta in costante catastrofe economica accompagnata da accadimenti eccezionali come censura, processi e fallimenti giudiziari, separazioni e via dicendo. Questa volta le cose sembravano andare tutte per il verso giusto, La mafia non è più quella di una volta è stato selezionato dalla Mostra del Cinema di Venezia nel concorso principale, ha ricevuto addirittura un premio dalla giuria internazionale, ottenendo un buon successo di critica e una altrettanto buona risposta dal pubblico ma alla fine il Diavolo ha messo ancora una volta lo zampino. Pare che i produttori del film vogliano abbandonare Franco, per paura che qualcuno possa sentirsi offeso. Sembra di rivedere Mannino quando nel film lascia Ciccio Mira da solo nel bel mezzo dello show, sembra che per Maresco si prepari l’ennesimo supplizio di Marsia, il satiro che suonava da dio ed era amato dai contadini che fu battuto con l’inganno da Apollo il quale lo volle scorticare vivo. Ma questa è un’altra storia e sarà per la prossima volta.

 

 

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