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FESTIVAL/FID 2015 - Rastreador de statuas (Jerónimo Rodríguez)

Sunday, 19 July 2015 10:46

Lorenzo Esposito

La sistematica ristrutturazione documentaria dell’immagine, oltre a banalmente confermare l’assoluta inesistenza della distinzione tra fiction e non-fiction, gioca un gioco sempre più sottile, in tempi di surplus di visioni e dati, con quanto della memoria è resistentemente labile e infinitamente variabile. Sembra che l’accumulo di sentieri interrotti, passi falsi, svolte inattese, derive claudicanti e abissali permetta all’immagine, ricondotta all’invisibile da cui si origina, di riscoprire un’ampiezza narrativa forse dimenticata (ai due capi dello stesso filo, che forse si stanno già toccando, l’infinito Romanzo di Frederick Wiseman e l’incendiaria furia letteraria delle serie televisive).

Non è solo (non più) una questione di punto di vista sul e del reale, ma di come la sua apparente frammentazione, di tale riscoperta, costituisca al contrario l’ossatura e il rilancio. È tutta una ricostruzione elettrica della cervellotica crisi che attanaglia il mondo attraverso la riattivazione chirurgica delle maglie neurali profonde. Solo che l’operazione a cervello aperto viene condotta da medici ciechi (anche se abbastanza folli da inoltrarsi nel buio). È il caso di Rastreador de statuas del cileno Jerónimo Rodríguez, che pensa bene, per intraprendere il suo andirivieni spazio-temporale (New York-Santiago-Lisbona, con illusorie andate e falsissimi ritorni) fra statue placche e monoliti (un viaggio fatto col “partito preso delle cose”, alla maniera di un Pollet, con l’unico obiettivo di trarre dall’immagine la parola, e dunque – sempre Pollet – col rifiuto preliminare dell’idea stessa di documentario), di prendere spunto da un film dimenticato, al tempo stesso verissimo e di pura finzione, come Monos como Becky di Joaquim Jordà. Qui il cineasta catalano ripercorreva la storia del suo intervento chirurgico al cervello (fatto filmare in diretta dal suo operatore di fiducia!), attraverso la storia dello psichiatra e neurologo Egas Moniz, inventore della lobotomia. Moniz aveva una gravissima artrosi alle mani che gli impediva di compiere personalmente le operazioni, e quindi aveva sviluppato, nelle sue ricerche, una sorta di frankesteiniano sdoppiamento fra cervello e corpo, fra atto e sua riflessione. Rodriguez, con fare borgesiano, installa il film al centro dello sdoppiamento, indagandone la lacerazione e scoprendosi esso stesso nucleo di una massa indistinta e proteiforme (come un cervello) che produce doppi, spalanca strade, finisce in vicoli ciechi (come il viaggio a Santiago sulle tracce di un viaggio leggendario fattovi da Moniz): le statue diroccate della memoria.

Rastreador de statuasL’opera di restauro, trattandosi di memoria, addensa buchi neri e segnala inquietanti ricorrenze. Intanto anche il padre del cineasta era un neurologo, che, come Moniz con Salazar, aveva avuto un rapporto difficile e conflittuale con il dittatore assassino Pinochet. Anche il padre del cineasta faceva filmare gli interventi chirurgici da lui diretti (Rodriguez ne mostra un paio tratti da flagranti VHS), così come aveva chiesto Jordà. Il cineasta (nel film una voce off che racconta in soggettiva) dal canto suo, non trovando la statua di Moniz (se non alla fine a Lisbona, dove ce ne sono due), comincia una lunga divagazione fra brandelli di ricordo e trasvolate da un Paese all’altro e intarsiandola con altre scultoree presenze: a Santiago il busto dell’Abate Molina e quello di Pushkin (e di rimando i lacerti youtube della famosa partita di qualificazione ai mondiali Cile-URSS del novembre 1973, che il Cile giocò da solo perché i sovietici si rifiutarono di scendere in campo nello stadio dove Pinochet massacrava i suoi concittadini); un monolito rosso cui qualcuno ha rubato la placca commemorativa e che a un secondo sopralluogo risulterà ricoperto di graffiti; la statua di Nicolae Balcescu, leader di una non ben identificata rivolta romena; la statua di Padre Studzinski, polacco trapiantato a New York; una serie di incontri misteriosi con gli amici e con una fidanzata; una serie di parate militari; una costellazione di parchi semivuoti spezzati nel loro silenzio dal verso stridulo degli uccelli.

Succede così quando ci si mette in testa di filmare la realtà, o addirittura di fare un documentario? Tu ti ricordi qualcosa, ti ricordi di aver visto qualcosa in un certo momento della tua vita, provi a ritornare sul luogo del delitto, anche se non sai bene dove, ma la cosa che ricordavi non è lì, o forse non è come ti ricordavi, o forse ancora attribuisci un’immagine a un luogo o a un’esperienza differenti, o peggio vissuti da qualcun altro (un po’ come con i film, si ricordano brandelli di sequenze, brani distorti di trame, spesso smarrendo tutto il resto e confondendo nomi facce e titoli). In realtà il protagonista-cineasta si accorge a poco a poco che il suo viaggio nella memoria lo riporta sui suoi stessi passi, su una ricerca che aveva già cominciato anni prima e poi dimenicandosene (per di più, come sta rifacendo adesso, filmandola già allora), e che si ritrova irretito in un grande e molle déjà vu.

Ed è a questo punto che il nostro viaggiatore ha un’illuminazione: gli viene in mente Raúl Ruiz, uno dei suoi eroi (così come l’eroe del padre era un altro funambolo del viaggio, il dribblomane argentino Omar Sivori). Ruiz che conosceva così bene i picchi di luce in fuga verso l’orizzonte del suo Cile, da poterseli reinventare ovunque, soprattutto nel suo esilio europeo. E che poteva fare un film in Patagonia senza davvero andarci, il lontano e sottovalutato capolavoro Het Dak van de Walvis (On Top of the Whale, 1981), parlato in cinque lingue diverse di cui una inventata, quella che un antropologo cerca di imparare da due sopravvissuti di una tribu indios della Patagonia. L’immagine, documentando il continuo venirsi a mancare dei confini, accumulando immagini per coprire i buchi neri della memoria, in fondo non solo li moltiplica, ma trasforma tutti i film in grandi fiction su cosa significa fare film, su qual è il significato della riproduzione, su dove davvero finiscono le apparizioni dovute a una sovrimpressione, o a una sovra-esposizione, o a un riflesso nello specchio. Dove finiscono i film. Dove finiscono le vite singole e collettive.



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