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Il monte delle formiche (Roberto Palladino)

Monday, 27 November 2017 10:18

Vanna Carlucci

Pungere gli occhi

È ancora possibile, oggi, credere alla pupilla che tocca, vitrea, la morbidezza nera delle immagini? Esiste cioè una disposizione d’animo, più esattamente, un’accorta devozione verso ciò per cui i nostri occhi hanno ancora voglia di credere? Riccardo Palladino sembra rincorrere questa necessità di fondo perché fare cinema è già in sé un atto di resistenza, significa lacerazione, sguardo dilatato dentro ciò che non è possibile ancora vedere. Secondo J.M. Straub, nel cinema “bisogna scavare, ma per scavare bisogna avere una punta, ci vuole acutezza” e così, probabilmente, si è cercato di fare con questo documentario Il monte delle formiche, presentato in concorso a Locarno nella sezione Cineasti del presente, poiché si scopre un’Italia diversa, forse scomparsa in cui Palladino scava o, sarebbe meglio dire, scala la sua montagna per scoprire cose mai viste in chissà quale passato remoto la cui perdita è diventata nervatura stessa dell’occhio, quel territorio sconnesso che è  ancora in grado di sovvertire la scena.

Il Monte delle formiche è un appennino distante alcuni km da Bologna su cui sorge il santuario dedicato a Santa Maria fornicarum: ogni anno (l‘8 settembre, compleanno della Vergine)  migliaia di formiche alate femmine portano con se un maschio nel proprio volo nuziale. Subito dopo l'accoppiamento, i maschi precipitano agonizzanti sul sagrato della chiesa e muoiono mentre la femmina, terminata la cerimonia, si stacca le sue quattro ali, si rinchiude sottoterra e fonda una nuova colonia. Decine di bambini assistono alla scena e partecipano a questa danza con quell’innocenza che fonda interrogativi e quella purezza d’animo che porta con sé lunghe lenzuola bianche, abito nuziale su cui si abbandoneranno gli insetti, raccolti poi come reliquie in sacchetti di stoffa. C’è qualcosa di estremamente mistico e sacro in questo sbattere d’ali vorticoso e, allo stesso tempo, di così crudele se “l’amore ha quasi sempre il volto stesso della morte” (Maeterlinck) e questa effervescenza che si sprigiona nell’aria, trova il suo sottofondo, una voce che intona una filastrocca spezzandosi poi in un vero e proprio rituale antico che ogni anno si ripete. La voce si fa nenia, ancella di una natura arcana, madre per cui noi non siamo altro che “da lei circondati e abbracciati, incapaci d’uscirne fuori, e incapaci di penetrar più addentro in lei” (Goethe).

 

Palladino, qui al suo quarto film, polverizza l’immagine ricorrendo alla pellicola (Super8 e 16mm): si tratta di una realtà rara, quasi trasparente, prossima alla scomparsa e lo spazio ripreso non può che insinuarsi nella grana sporca dell’immagine, sguardo antico come questa piccola comunità di cristiani che assiste alla cerimonia della Vergine partecipando a un mistero che li rende tutti fedeli alla vita, alla morte. C’è uno sguardo non solo estetico, sicuramente lirico, ma soprattutto politico in questo film ché ci rende ben consapevoli di quanto l’uomo moderno sia lontano dal concetto stesso di comunità e aggregazione; al contrario, il profondo misticismo della formica che nel suo volo d’amore si concede alla morte per il bene di una collettività sotterranea, fa sí che lei operi ed esista solo “per il suo dio, né immagina che si possa avere altra felicità, altra ragione di vivere, che servirlo e dimenticare se stessa, perdendosi in lui […] il suo totem è lo spirito del formicaio” (Maeterlinck). Le parole del grande entomologo Carlo Emery e di scrittori come Maurice Maeterlinck e Goethe puntellano il movimento stesso di questi sciami al galoppo che fermano il tempo in un eterno presente e tutto si ripete come i resti di una memoria collettiva ancora in grado di tornare in superficie a cercare di rovesciare un sistema individualistico che ci riguarda e che il cinema, di rimando, prova a smuovere nella sua (in)attualità senza la pretesa di svegliare coscienze ma per lo meno di pungere gli occhi.

 

 

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