"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

An Unusual Summer (Kamal Aljafari)

Saturday, 27 March 2021 19:09

Si esiste solo se si è visti

Giuseppe Gariazzo

On my father’s camera everyone has a chance to exist”. Si esiste solo se si è visti - ce lo ricorda(va)no anche José Saramago in Cecità e Charles Aznavour nei suoi diari filmati portati alla visione da Marc di Domenico in Le regard de Charles. Fare emergere dal passato immagini dimenticate, e dare loro visibilità, è il lavoro monumentale che Kamal Aljafari compie da anni e trova in An Unusual Summer un altissimo punto di ricerca. Vedere/Essere visti. Ovvero, come un materiale nato, e accumulato in ore, giorni, di girato, con l’intento di cercare di scoprire il responsabile di un atto di vandalismo contro l’auto del padre del regista, si trasformi, ancora una volta nell’opera di Aljafari, in una potente riflessione sullo sguardo, sul territorio, sui corpi che vi transitano, attraverso la manipolazione del testo originario, sul quale intervenire per rendere quelle immagini la tela che cristallizza uno stato di cose tanto intimo, familiare, quanto sociale, politico.

Il pre-testo di An Unusual Summer è apparentemente semplice: nel 2015 il padre di Aljafari muore e il figlio cineasta trova i nastri registrati nell’estate del 2006 dalla videocamera di sorveglianza installata dal padre da una finestra della sua casa. Fino a quel momento nessuno, tranne il genitore, aveva guardato quella mole di immagini. Un unico punto di vista, lo stesso set, che Aljafari conta-mina con i suoi interventi, camminando - con l’occhio tagliato perché solo accecandosi si può tornare a vedere - dentro quelle immagini, penetrandole (proprio come in Recollection), colmando la distanza fra la casa di famiglia (da dove tutto si osserva) e lo spiazzo antistante: la strada, un piccolo parcheggio con l’auto del padre e quella della moglie, un muretto, un albero con giardino in secondo piano, il pezzo di un’altra strada sulla sinistra dell’inquadratura. Ed ecco che, nell’espressione artistica di Aljafari, quel punto di vista da unico diventa plurale, quel set da fisso si fa mosso, esplorato nei dettagli da un occhio che, proprio perché alterandole, rende sue quelle tracce depositate e a lungo invisibili, ridando loro senso e esistenza, interrogando la loro origine e terremotandola in un discorso teorico e militante. Non si tratta più solo di (una parte di) immagini il cui scopo era di pura documentazione investigativa di un, in fondo, banale fatto quotidiano. Aljafari ne estrapola dei frammenti (in particolare relativi a una giornata la cui data è impressa sull’immagine), avanza e retrocede, ri-avvolge e ri-svolge il nastro, destruttura l’ordine cronologico per ri-comporne uno tutto suo, espanso e contratto che, istante dopo istante, fotogramma dopo fotogramma, di-segna la mappa sempre variabile di un territorio circoscritto che assume, nel gesto filmico del cineasta palestinese, forme stratificate di significato.

Quello sguardo dalla finestra, che coglie gesti e voci dei passanti (il padre, la madre, la sorella del regista, qualche abitante del quartiere di Ramle chiamato “Il Ghetto”, città in territorio israeliano dove la parte paterna della famiglia si fermò dopo l’esilio del 1948, ricordava Aljafari in un altro suo lavoro), la reiterazione dei loro comportamenti, ha la forza di una visione d’inizio cinema, una veduta che richiama quelle dei fratelli Lumière sconvolta però dalle interferenze visive, dai graffi, dai dettagli, dalle alterazioni cromatiche create da Aljafari che fanno venire alla mente anche le esplorazioni totali nei meandri delle immagini compiute dai sempre imprescindibili Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucci e Stan Brakhage. E, in sintonia Lumière, Aljafari usa didascalie, anche graficamente simili a quelle del muto, per dare informazioni, in terza o prima persona, mentre solo la voce di un bambino o cenni di brani musicali interagiscono ogni tanto con i suoni e il silenzio provenienti dalla strada. Uno spicchio di terra che racchiude tutta la Palestina. Perché con questo autentico capolavoro Aljafari fa (anche) uno dei ritratti più nitidi (da immagini deturpate spesso fino all’indefinizione) della condizione palestinese. La veduta dalla finestra nell’interpretazione di Aljafari assume le forme di una gabbia, di un perimetro dentro il quale le persone deambulano, come se lì venissero sempre respinte dal fuori campo verso cui si dirigono. Un’immagine che imprigiona, che trasmette la più profonda claustrofobia di un popolo cui è negato il movimento, così a Gaza come in Cisgiordania, da un sempre più devastante regime israeliano. An Unusual Summer è un’immensa opera teorica e di bruciante attualità. Si esiste solo se si è visti.

 

 

Giuseppe Gariazzo

Sunday, 07 June 2020 20:39

Contagi

Fuggire dalla ‘casa’, dalla clausura di essa, da uno dei tanti confini fisici e virtuali attuati contro un virus certo non solo espanso dai poveri pipistrelli, ma da un sistema di controllo che nella sua pervasività ci rimarrà (salvo smentite) attaccato addosso, proprio come in seguito ai fatti dell’11 settembre 2001 e seguenti, precedenti prove di forza per privazioni democratiche mai restituite, per ri-trovarlo, respirarlo, volutamente, scientemente, lo stato d’emergenza nelle immagini mai così spietatamente lucide, profetizzanti nella loro sconvolgente attualità, di due film rivisti, visti per la prima volta in queste giornate d’infinito scivolamento nell’apatia e nell’intorpidimento (neppure il desiderio maggiore di leggere, vedere, ascoltare o, meglio, il desiderio di un fare che rimane pensiero e raramente azione). Non è fantascienza, non è horror apocalittico quello de La cosa di John Carpenter e La città verrà distrutta all’alba di George A. Romero. Da due dei più immensi cineasti del secolo scorso ecco allora due antidoti preziosi, due film che fanno male (e benissimo agli occhi, alla mente) e che, ri-tuffandoci nel presente, ci distolgono dalla pandemia di un‘informazione mediatica, televisiva online cartacea (tranne rarissime eccezioni), insostenibile inascoltabile inguardabile e dal proliferare di una retorica pornografica diffusa a suon di messaggi spot proclami sul “restare a casa” che, davvero come un virus, s’introducono neppure subdolamente ma sfacciatamente attraverso la moltitudine di schermi che ci circondano con il loro falso buonismo (e quindi mai grazie abbastanza a David Cronenberg, a Videodrome, ai suoi demoni sotto la pelle). Come non vedere nel finale de La cosa (due uomini nella notte, scampati al massacro, uno accanto all’altro, che si guardano, con il dubbio che uno di loro, o entrambi, o nessuno, sia contaminato) riassunto tutto il clima di sospetto di questi tempi, la paura delle persone per l’altro, che chiunque possa essere portatore del virus? E come non vedere sparsi nelle scene del capolavoro di Romero (ha quasi cinquant’anni…) segni della paura e del controllo odierni (i droni al posto degli elicotteri per scovare la gente, la cecità di chi dovrebbe garantire l’ordine e invece assale il chimico, allontanatosi di pochi metri dal suo laboratorio, non credendo a quello che dice, le tute bianche e le maschere e la quarantena imposta…)?

MARLEN KHUTSIEV

Wednesday, 05 February 2020 22:35

Giuseppe Gariazzo

Due uomini camminano, parlano, s’inoltrano in un bosco solcato da un fiume. Due rive. Un uomo da una parte, uno dall’altra. Si tendono le mani, si sfiorano, la distanza non le fa toccare. Proseguono, in silenzio, vicini/lontani, mentre il fiume si allarga, separa i sentieri. Gli uomini, sempre meno visibili. La musica sinfonica come ninnananna che moltiplica l’ipnosi del movimento dell’acqua e dei gesti della macchina da presa, panoramiche da una all’altra riva, a unire quei due corpi sempre più allontanati dalla geografia della natura, soggettive a mezz’aria che avanzano sopra il fiume, fino a che esso conquista l’inquadratura, entra nell’immagine, la bagna con la sua presenza. Nell’acqua-schermo si conclude, affonda, abbraccia - ovvero si apre a nuove percezioni, al fuori campo, alla disgregazione delle pareti filmiche, come in un istante espanso di potenza brakhagiana - Infinitas, titolo esemplare, ultimo film (poi avrebbe realizzato un mediometraggio documentario e una scheggia per l’opera collettiva Venice 70: Future Reloaded, non casualmente chiamata In perpetuum infinituum) di Marlen Khutsiev, realizzato nel 1991. Come non vedere allora in quelle due sponde, in quei due uomini, in quel fiume, il durante della separazione storica di un intero, immenso paese: Unione Sovietica/Russia?

Cinema infinito, quello di Khutsiev (che era georgiano), fluviale tanto nel ricorso all’acqua, di un fiume o della pioggia, elemento ricorrente nei suoi film, quanto in quello della durata, e di viaggi nel tempo e nella memoria. Il tempo, in Infinitas e ovunque nella sua filmografia, si frantuma, va contro-corrente, si annulla. Khutsiev lo sovverte fino a un punto estremo in un altro suo capolavoro, duramente colpito dal potere, Il bastione Ilich, poi ri-titolato Ho vent’anni, dove un soldato parla con il padre morto più giovane di lui. Cinema del qui e altrove, concreto e limpido, di vita e di morte, di flagrante sospensione dello sguardo, quello di Khutsiev. Cinema intimista e politico che proviene dal futuro.

Incontrare l’immagine originaria

Giuseppe Gariazzo

Cinema dello scrostamento, quello di Ghassan Halwani. Opera prima che narra lo sradicamento, l’esilio, l’assenza e la tenacia della memoria, Tirss, rihlat alsoo’oud ila almar’i (Erased, Ascent of the Invisible). Un cineasta, il libanese Halwani, che incarna un fare cinema r/esistenziale seguendo un percorso d’avanguardia nel quale abitano inestricabili la fissità e il movimento, le riprese dal vero e l’animazione, la parola e l’immagine che, entrambe, non sono mai una ma plurali, contenendo in sé una stratificazione senza fine di altre parole e immagini da far ri-emergere nella loro fragilità e, al tempo stesso, solidità. Tirss è un testo estremamente fisico proprio nell’urgenza di ri-portare in primo piano, con ostinazione, una materia (il corpo dell’Uomo, i corpi di una moltitudine di persone massacrate, disperse in fosse comuni, fatte sparire) strategicamente occultata da una politica di sterminio. Libano. 1975-1991. La guerra civile. 1982. Il massacro dei profughi palestinesi nei campi di Sabra e Shatila alla periferia di Beirut. Episodi che ormai fanno parte della Storia. Eppure. Una fotografia in bianconero scattata nel 1985 o 1986 può ri-attivare il pensiero e l’azione per scendere in profondità, immergersi nel corpo del rimosso nel tentativo di incontrare l’immagine originaria, di a-scendere per osservare, ri-trovare, quello che, più che cancellato, è stato coperto dalla stratificazione su di esso del tempo e dello spazio.

Halwani parte da un indizio e attorno a esso vi costruisce un poema lancinante che stordisce lucidamente. Un ricordo (dieci anni fa gli sembrò di scorgere per strada una persona che conosceva e che vide rapire 35 anni prima, non essendo però sicuro che fosse la stessa). La decisione di mettersi alla ricerca di quel volto sepolto sotto chissà quanti strati di manifesti appiccicati sui muri di Beirut. E quella fotografia in bianconero, sulla quale il film si sofferma a lungo e più volte, che gli fu data da un fotografo; fotografia modificata dall’autore che cancellò le persone coinvolte nel rapimento lasciandovi comunque delle tracce. Sono gli elementi che ricorrono in Tirss, cartografia urbana e politica elaborata da un filmaker che effettua un lavoro da archeologo, con le sue mani munite di pennello, scalpello, raschietto, forbici, impegnate a scrostare la carta indurita dai muri lungo le strade, a scorrere con una matita e individuare su una lavagna luminosa dei volti da una massa di foto formato tessera, a ritagliare quelli di un uomo e una donna per poi disegnarli su una carta come si trattasse di un identikit.

Crea linee di memoria, Halwani, e compie una sorta di autopsia espansa: sulle fotografie accartocciate che si trovano sui muri, su quelle pulite e ordinate sul tavolo, sui materiali d’archivio (le pagine dei giornali e le immagini televisive che riportano le notizie del ritrovamento di fosse comuni), sulle mappe aeree delle zone di Beirut (viste ieri e oggi) usate per seppellire i cadaveri, sull’immensa discarica accanto al mare mostrata in dettaglio da immagini del 1991, sul registro delle persone scomparse (migliaia di ‘non-morti’, di ‘immortali’). Un’autopsia della quale sentiamo gli odori, e che Halwani conduce spingendo il suo occhio fino e oltre la distanza più ravvicinata possibile. L’occhio di Halwani, come quello di Brakhage, vuole vedere, e toccare, con i propri occhi - the act of seeing with one’s own eyes (a proposito di autopsie…). Scrostare, entrare, addentrarsi, penetrare, sporcarsi le mani. I suoni della carta strappata dai muri, del suo scollamento, ci restituiscono, altrove, il lavoro meticoloso, infaticabile, di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Pellicola-carta da srotolare davanti agli occhi, come una pelle millenaria, un sudario-mummia, una pergamena di cui rivelarne la carne (come non pensare alla sigla che Yervant e Angela regalarono ad alcune edizioni, ormai lontane e anch’esse, come i corpi e i volti di Tirss, svanite e nonostante ciò indelebili, del Torino Film Festival…). Altrove, ma dialogante, l’occhio di Halwani e quello di Gianikian e Ricci Lucchi. In funzione, ben aperto, là dove nel mondo sono esistiti ed esistono luoghi devastati dalla guerra per dare loro voce, e voce agli anonimi costretti a subirla, andandoli a cercare quegli anonimi dentro le inquadrature, proprie o altrui, o le fotografie, per restituirli alla visione. Per una durata che va ben oltre quella del film che quelle immagini e quei corpi contiene.

 

 

Rat Film (Theo Anthony)

Monday, 21 November 2016 10:08

Uomini e topi

Giuseppe Gariazzo

Rat Film. O, anche, Baltimore Film, che potrebbe essere un titolo alternativo, in sovrimpressione con quello originale del primo lungometraggio d’arte, politico e poetico, astratto e carnale, dell’artista visivo, documentarista militante, fotografo e reporter, Theo Anthony. Che Baltimora, la sua città, la conosce bene, negli anfratti e nella totalità, nelle persone singole che la abitano, formando nel corso del tempo una comunità stratificata e problematica, e nella sua Storia. Abitata, inoltre, ieri come oggi, da una moltitudine di topi contro cui la popolazione, le istituzioni, gli scienziati hanno mosso e muovono una guerra senza quartiere.

L’opera di Theo Anthony è, attraverso questo pre-testo, la cartografia di un luogo, il di-segno di ambienti e di persone/personaggi uniti fra loro dal soggetto del film oppure isolati nella rappresentazione di un lavoro-ossessione-memoria moltiplicatore delle possibilità di messa in scena (il museo delle miniature che riproducono scene di crimini) e di visione (il laboratorio per la sperimentazione di esperienze in virtual reality). Questi ultimi sono due inserti a sé in un testo costituito di frecce che indicano percorsi multidirezionali, intersezioni, detours dell’occhio tra staticità e movimento, falsi movimenti e surplace del gesto e dello sguardo. Con l’inquadratura-simbolo, ripetuta, del topo all’interno del bidone dell’immondizia che salta cercando di uscire, il suo corpo teso nell’impossibile realizzazione della sua missione, nel superamento di quel muro di latta che separaunisce il dentro e il fuori. Ovvero, il senso di Rat Film, che è la mappatura visiva e sonora di un attraversamento incessante dei confini. Anche in una stessa inquadratura. Si pensi all’uomo-pifferaio seduto sul divano di casa con i topi sulle spalle, che inizia a suonare il flauto riproducendo dal vivo l’immagine contenuta in un quadro alle sue spalle con una donna che suona un analogo strumento, e alla stanza ri-di-segnata con muri di separazione che lui e la moglie hanno costruito per fare circolare i loro topi domestici; agli uomini che, con armi e oggetti, tendono imboscate assassine ai ratti che si intrufolano in un giardino o in un vicolo (e qui il discorso si espande e fotografa la questione delle questioni, la relazione fra gli americani e le armi); ai topi rosa, neonati, ancora ciechi, costretti in contenitori per essere dati in pasto ai serpenti (e qui il film devia verso lo snuff, perché un gesto di naturale ferocia animale, se eseguito in libertà, si trasforma in orrore se eseguito in cattività e alimentato dalle intenzioni scientifiche dell’uomo).

 

I confini si slabbrano. E le frecce di Rat Film aprono cortocircuiti spazio-temporali. Nel presente di Baltimora, mappata da Anthony con andature differenti (la messa in posa degli interlocutori; le strade colte nella sospensione della notte; il videogame urbano tridimensionale; gli edifici, le strade, i quartieri della città accostati in un montaggio clip punteggiato di bip sonori preceduto da una soggettiva dentro/fuori un tunnel, come un mouse, rieccoli i topi in una parola più dolce…, del computer che traccia ulteriori itinerari). Nel suo passato, nitidamente portato in primo piano tanto dalle mappe di Baltimora - sulle quali incidere fratture o posare colori per evidenziare i segni di quella problematicità sociale che significò segregazione e separazione tra la popolazione bianca e quella nera - quanto dalle fotografie dei luoghi più poveri e marginalizzati. E i corpi e i volti di anonimi afro-americani accanto alle loro baracche dialogano con quelli altrettanto anonimi filmati oggi dal regista. Cortocircuiti, sempre. “New maps. Old maps. Same maps”. La Baltimora di Theo Anthony, con i suoi topi e i suoi abitanti eccentrici (non si può non pensare a Herzog, che Anthony ha ben presente avendo frequentato nel 2013 a Los Angeles la Rogue Film School creata dal cineasta tedesco), assume quindi/infine la forma di un corpo sul quale praticare un’autopsia al tempo stesso radicale e visionaria.

 

 

Recollection (Kamal Aljafari)

Tuesday, 27 October 2015 16:04

Passages à l’acte

Giuseppe Gariazzo

Un «cinematic territory», lo definisce Kamal Aljafari. Una stratificazione di spazi e tempi nella dis-installazione del passato e del presente, nella rivendicazione - muta, silenziosa, al più sussurrata - di un tempo e di uno spazio espansi che non siano altro che quelli del cinema, della sua memoria e dei suoi luoghi/set ri-collocati da un occhio ri-filmante in costante ri-posizionamento all’interno dei fotogrammi. Accade in Recollection, nella sua forma più pura, ovvero contaminata, testo di approdo del lavoro del filmmaker palestinese. Film, cinema, che cerca una sua collocazione fuori/dentro uno schermo, ritorno alle origini, esperienza onirica, sensoriale, tattile. Toccare con l’occhio i muri, le pietre, la polvere, i fili dell’elettricità così sospesi e ricorrenti a di-segnare ulteriori traiettorie nel corpo dell’immagine, gli oggetti, le rovine di ambienti senza nome (si tratta di Jaffa, ovvero di qualsiasi posto devastato dalla storia nel mondo o ri-scritto dal passaggio del cinema - ma non è poi così indispensabile conoscere il pre-testo, vale a dire rimuovere dalle immagini anche attori dei film di guerra girati nei decenni passati in quella città, che ha portato Aljafari alla realizzazione di Recollection). Bisogna lasciarsi bagnare (non per nulla il film si apre sulle onde e sul mare) dal flusso visivo, toccando anche i suoni, i rumori, le voci che dialogano con immagini che non appartengono loro, in un sincrono/fuorisincrono che amplifica la domanda, la curiosità, rinviando all’infinito la risposta: da dove provengono quelle immagini?

Si cammina dentro esse. C’è, in Recollection, la concretezza dei fantasmi, la concretezza del camminare nelle immagini, dei ‘passi-sguardi’, dei loro inciampi e delle loro soste (dei piedi e degli occhi, per lampi di montaggio o di andature deambulanti cercando dettagli da isolare penetrando il corpo dell’immagine), del procedere come in un luogo sacro di memorie dove si entra in punta di piedi. E il viaggio porta proprio in una chiesa, mentre dei passi fuori campo invitano a compiere fisicamente quell’esperienza soggettiva. Così come un altro rumore, come di qualcuno che scava/picchia con uno scalpello, entra poi in campo, ma negando ancora una volta la sua provenienza. È, nella sintesi estrema, il segno, il gesto poetico di Aljafari, che scava in ogni fotogramma, ri-modella, cancella e mostra; manipola immagini in un inserto creando un mosaico da sdoppiare, moltiplicare che fa venire in mente le tavole di Rorschach; fa ripetere, nel montaggio, una camminata, un gesto alle figure anonime (infine, forse, individuate nel poema intimo scritto dal regista al termine del film) che transitano nelle inquadrature, esprimendo, lì e altrove, il senso e la concretezza di un passage à l’acte interrotto e ripreso.

Film-approdo, Recollection, che ha i suoi germi in altri lavori del regista, The Roof (2006) e Port of Memory (2009). Perché il cinema di Aljafari è fortemente politico sempre partendo dall’esperienza personale, dalla soggettività. Quel che in Recollection, dal punto di vista della/e memoria/e familiare/i (la famiglia, esule nel 1948, si fermò a Ramle, quella paterna, e a Jaffa, quella materna), non viene spiegato, aveva infatti trovato narrazione in quei testi precedenti, già fondati - oltre che sulle testimonianze di parenti e altre figure in uno sminamento del documentario e della finzione, che sarebbe approdato a uno sminamento delle immagini stesse in Recollection - su alcuni elementi per Aljafari imprescindibili: la persistenza dei muri filmati; le case e la questione delle abitazioni sottratte ai palestinesi; certi luoghi di Jaffa usati in Port of Memory le cui immagini sarebbero state ri-usate identiche in Recollection; e sempre in Port of Memory squarci di film guardati in televisione che diventano a tutto schermo - non a caso testi come Deltaforce 1 e Deltaforce 3 con Chuck Norris, espressione di quel cinema hollywoodiano made in Golan e Globus che sarebbe stato cancellato in Recollection.

Le ossessioni di Kamal Aljafari sono magnificamente resistenti. In opere dove il gioco della memoria e delle fonti stratificate costituisce una re-collection anche del/nel/dal cinema del regista.

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