"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Arturo Lima

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The Wolf of Snow Hollow (Jim Cummings)

Saturday, 27 March 2021 18:18

Chi vivrà vedrà

Arturo Lima

Sembra che Jim Cummings nella sua giovinezza abbia letto a più non posso William Faulkner. Non che questo ci dia un particolare indirizzo di lettura su questa strana creatura borderline che comincia a dirigere film per caso, per vedere se è capace, e a esserne il protagonista per gioco mentre nel frattempo si ostina a infestare l’Internet (area letterbox/reddit) con feroce bulimia. Certo, c’è il masochismo delle dichiarazioni, l’isolamento, la schizofrenia del suo alter ego… Diciamo che, per uno ossessivamente collegato alla rete, il fatto che poi diriga film duri e omogenei, dove la crepa della follia non riguarda la messa in scena (adrenalinica e grottesca, mai cool) ma la caduta nell’abisso di un personaggio, rende più coerente, nel lavoro di questo grande incosciente, l’amore per Faulkner. The Wolf of Snow Hollow prosegue (dopo la sorpresa Thunder Road e in attesa di The Beta Test) la lista di mad cops cui Cummings presta il volto. Più che mad, psycho però, nevrotici assoluti che assorbono come spugne le nevrosi che li circondano (luoghi sull’orlo di una crisi cosmica: Texas, Utah, Hollywood…). I film stessi ne risentono, fuori controllo e disarticolati, nascono giusto prima dell’urlo liberatorio (che peraltro non porterà a nulla se non a cadere ancora più in basso e a perpetuare il dolore). Si ride? Si. Ma di una risata ghiacciata, maledetta. Cummings ha questa perversione voyeurista di osservare qualcuno andare in pezzi, all’improvviso, e poi di rincorrerlo in una escalation senza vie d’uscita. Con un piccolo stadio di perversione in più però, costringere lo spettatore a fare il voyeur del voyeur (anche qui senza vie d’uscita). E, come sa chi passa il suo tempo in rete, se fai troppo a lungo l’esperienza del vuoto il vuoto ti appartiene. Alla fine, che ci sia un serial killer travestito da lupo o un lupo mannaro che per davvero uccide le donne del paesino, è più rassicurante. Certo più rassicurante del poliziotto di provincia forse misogino forse no (ma neanche seriamente, così, per nevrosi, si è detto) che perde la testa. Eppure come non provare simpatia per Cummings che lo interpreta così com’è, instabile e perennemente vicino a esplodere; o per il fatto che fa recitare un’ultima volta l’immenso Robert Forster con fattezze simili agli altri due ruoli finali in Breaking Bad e Twin Peaks: The Return (è suo padre, l’anziano saggio sceriffo, verso cui ovviamente ha un mostruoso complesso di Edipo). C’è anche un omaggio agli anni ’80 (John Landis, Stephen King), ma non è importantissimo. Più interessante come non ci si possa ritrarre dall’ammirare tanta rabbia non incanalata o incanalata male, poco ironica e molto schizoide. Questa frontalità è la sua marca filmica, o qualcuno potrebbe dire la sua ottusità. Entrambe le verità vanno a comporre l’ipotesi di uno sguardo, che sembra crescere con tensione non usuale. Chi vivrà vedrà.

 

 

Arturo Lima

Sunday, 07 June 2020 20:35

Camera verde per Ōbayashi Nobuhiko

L’idea di labirinto non si limita a depositarsi  nel titolo -  Labyrinth of Cinema - dell’ultimo film di una delle figure più atipiche della storia del cinema giapponese. Ōbayashi Nobuhiko, cui tre anni fa venne diagnosticato un cancro terminale e pochi mesi di vita, ha probabilmente tratto l’energia necessaria a contraddire la ferale previsione dei medici dalla concezione stessa della sua opera -questa sí - tutta contenuta nel progetto con cui da tempo aveva deciso di salutare le nostre rive terrestri altrettanto in cattiva salute. E come sempre accade a chi, non visto, nel labirinto suo proprio ha lasciato negli anni cadere le molliche di pane necessarie a ritrovare la strada, il ritorno a casa non è solo flusso autobiografico né solo ricognizione pirotecnica che mostra l’entrata di molti altri labirinti suoi simili (in questo caso quelli di una storia possibile del cinema giapponese), ma suo malgrado generatore di autentiche profezie. Ōbayashi Nobuhiko torna dunque a casa, in quella piccola città di nome Onomichi in cui per tutti gli anni sessanta aveva girato i suoi primi film, prima secondo un percorso diaristico quasi mekasiano, poi via via esplorando con particolare carica inventiva certe vie underground delle nuove ondate giapponesi e, non contento, gettandosi per qualche tempo a capofitto nella sperimentazione pubblicitaria per arrivare, nel 1977, al celeberrimo fantahorror cui tutti devono qualcosa, quell’House che ancora oggi sembra un misto inspiegabile di Rybczyński e Raimi. L’idea è che a Onomichi sta per chiudere l’unico cinema locale e che lo stia per fare con una maratona di film di guerra giapponesi e che nella sala convergano uno dopo l’altro - anfitrioni e Caronti del pubblico di abitanti di Onomichi presente in sala - la seguente massa di fantasmi fluttuanti: una ragazza adolescente forse già morta, un viaggiatore nel tempo, un fanatico cinefilo, uno yakuza, un ragazzo semplice capitato lì per caso (forse alter ego di Ōbayashi stesso) che guarda caso si innamora della ragazzetta zombie inseguendola dentro lo schermo dove tutti vengono risucchiati, proprio come i giovani protagonisti di Ōbayashi raccontavano i loro primi amori nei corti sperimentali degli inizi. Ōbayashi, scomparso mentre noi tutti eravamo in quarantena, fa un film che potrebbe essere appunto girato la sera prima dell’apocalisse. L’ultima notte è una discesa folle e follemente verticale nella storia del cinema giapponese fino alla deflagrazione dell’atomica. Tutto è permesso, qualunque tecnica cromatica classica digitale e avant-garde. Qualunque addio, qualunque citazione, qualunque dedica. Serie infinita di haiku. Il Giappone imperiale. La Restaurazione Meji. L’invasione della Manciuria. La nascita del cinema. La Seconda Guerra Mondiale. Keisuke Kinoshita, Ozu Yasujiro. Bobine che si accavallano. Muto e sonoro. Una specie di histoire godardiana a-sintattica, convulsa, che  non sceglie nemmeno i film propriamente più belli, in cui a un certo punto Ōbayashi si traveste da John Ford ma solo come ulteriore sberleffo. Il cinema cola a picco mentre vorrebbe essere in una volta sola tutto il cinema possibile. Ed ecco, inesorabile, l’esplosione che spazza via e lancia verso il futuro la storia. Ecco Ōbayashi, come un novello Benjamin, salutare il suo pubblico così: “un film può cambiare il futuro, se non il passato”. 

 

 

ROBERT FORSTER

Wednesday, 05 February 2020 22:41

Arturo Lima

 

Gentleman è la parola più ricorrente. E anche quella più giusta. Per nulla legata ai ruoli interpretati, ma alla saggezza e alla calma con cui un uomo riesce a fare in modo che il suo personaggio sia prima di tutto un uomo. E questo rende il personaggio vero. Da Medium Cool a Jackie Brown. Se poi sei anche più bello di Marlon Brando, sei troppo per chiunque (tanto che a un certo punto i registi ti dimenticano). Quando Tarantino ha scritto per te, immenso Robert Forster, lo ha fatto perché aveva bisogno di un uomo, un uomo in grado di stare accanto a una donna unica come Pam Grier, non certo per resuscitare un attore in difficoltà. Ha fatto un movimento etico prendendo spunto da te. Tu che avevi soprattutto quel modo di guardare, quella luce negli occhi. Malinconici? Di chi ne ha viste troppe? Eppure duri, duramente etici (nessuna paura dell’ambiguo ruolo in Breaking Bad). Che non ammettono ipocrisie o sotterfugi. Anche David Lynch lo deve aver pensato. Mi serve qualcuno che, nel mondo fuor di sesto chiamato Twin Peaks, sappia rintracciare brandelli di realtà, sappia portare un misto di tenerezza e dolore, sappia vedere, riconoscere, guarire.

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Arturo Lima

Pittori di anime

A dire il vero If Beale Street Could Talk di Barry Jenkins è un film considerevole. Uno di quei casi rari in cui l’adattamento si scopre essere in realtà quasi un naturale scivolamento, qualcosa di già forse contenuto nelle pagine del romanzo di provenienza o scritto come se fosse ancora tutto da filmare (come è tipico dell’autore, James Baldwin). Jenkins traduce questa qualità in desiderio immersivo, si muove morbido e sensuale, fisico e in primo piano. Davvero era da tempo che non si vedeva un film che anche quando si chiude in una stanza o in una casa senza temere lunghe sequenze di dialogo, lo fa conducendo sempre gli attori verso un terremoto di sentimenti, e tutto sembra bruciare, i corpi i volti le reazioni sono letteralmente infuocati (certe sequenze sono addirittura indimenticabili, come l’incontro esplosivo e tesissimo fra le famiglie dei due amanti, puro incandescente mélo a metà fra Sirk e un Cassavetes black). E ancora più raramente è dato vedere una tale perizia di messa in scena, dove il décor e la grana concorrono insieme a ricreare, senza artificio, l’Harlem degli anni ’70 (l’estate di Harlem, con quell’accensione unica che sembra al tempo stesso aurora e crepuscolo), dove neppure si può dire che siamo invitati a entrare, siamo già morbidamente parte di una memoria che si svolge liquida e fluidissima, e dove la pur evidente causalità del difficile contesto sociale non scade mai nel sociologico, passando anzi in secondo piano rispetto allo scatenamento puro di un amore in trappola. Non sentimentale, romantico. Non didascalico, didattico. Forse allora non c’è da stupirsi che Jenkins pubblichi di recente sul “New York Times” una conversazione con Claire Denis su High Life, dove oltre alla convergenza all blacks (per Denis all’inizio della carriera quando si trattava di chiudere i conti con la sua giovinezza ‘africana’ e suo malgrado colonialista), i due riflettono insieme sui caratteri di umanità e tenerezza e sul modo di orchestrare il tempo. Denis spiega la sua procedura per diagrammi, volute sempre più ampie e insieme aggiranti, che del tempo cercano di implicare e proprio di filmare ciò che viene costantemente perduto o sviato. Senza che Jenkins faccia riferimento al suo film (lo fa Denis però, complimentandosi), si capisce l’ispirazione che trova nel metodo di Denis, ma che tuttavia lo elabora partendo dalla concentrazione assoluta sui volti, i quali recano i segni e, appunto, le ferite, i vuoti di memoria, del tempo che stringe d’assedio e culla con lo stesso movimento. Si tratta di cineasti che non temono la vulnerabilità, anzi conoscono la fragilità delle storie e delle immagini, degli uomini e delle donne, e ne traggono linfa visiva. Sono piuttosto dei pittori, pittori di anime che ci mettono l’anima. Nella gentilezza delle giustapposizioni temporali di Jenkins c’è la capacità di mostrare come presagio la tristezza verso cui volge la storia d’amore fra Tish e Fonny. Senza alcun patetismo, lo spettatore si ritrova nella posizione di accompagnare questa inesorabile linea malinconica, conscio che è da qui che si genera per i personaggi la forza necessaria a resistere. E allora, grazie a quest’ultima pennellata, non è solo un rapporto individuale, ma un intero mondo, un’intera epoca che si sprigiona.

 

 

La caduta degli dei

Arturo Lima

Non è tanto la conta dei caduti a colpire, questa sorta di auto-rivoluzione dark cupissima che conduce alla sconfitta apocalittica e mai vista dei supereroi (l’Uomo ragno?! Muore l’Uomo ragno?!): ma l’immagine subito successiva, uno dei più insostenibili finali di sempre, col vincitore finalmente libero di sedersi e godersi il meritato riposo per aver salvato l’umanità decimandola, anzi proprio dimezzandola secondo un calcolo ben preciso che comprende il suo contrario: morte uguale sopravvivenza. Necessario taglio della specie, su cui il possente mostro violaceo riflette rimirando l’orizzonte e facendosi accarezzare le membra da un dolce pallido sole. In un sol colpo viene spazzato via l’immancabile armamentario di vocaboli di genere, compresa l’ovvietà post-fumettistica dell’intento editoriale che polverizza un intero ciclo narrativo in realtà confermandone l’imperituro (questo sí) crossover.

L’unica cosa interessante dell’attuale dittatura del plot nella narrativa seriale (limitiamoci ai prodotti Marvel per ora), sono le sacche di resistenza che, nel moltiplicare a dismisura ciò che già è bi e tri dimensionale (il fumetto), riagganciano l’immagine in un luogo dove parla una lingua tutta sua e inaspettata. Il fascino assoluto di Avengers: Infinity War non è nella morte degli amati personaggi, ma nello sguardo fisso sull’immagine che si sgretola dall’interno, che si curva al punto su se stessa da arrivare ad auto-intercettarsi altrove, freddamente sinusoidale, scelleratamente impropria e impersonale (visto con i miei occhi un bambino farsi venire in mente, serissimo, di dover fare la pipì proprio durante la battaglia finale, quando gli è diventato insopportabile il puzzo di morte). Troppo cinema laddove non ne è quasi prevista presenza, questa è la vera apocalisse - l’amore per la fine - architettata da Anthony e Joe Russo per sfuggire al loro destino di shooters: ogni supereroe che sparisce o che si immalinconisce per la perdita di un suo compagno è un tassello che li conduce sulla strada della regia.

Di qui anche l’aspetto politico. Rischiare tutto nel procurare traumi e rivalse non fra i protagonisti ma fra un’immagine e l’altra, con l’idea che il conflitto sia l’unica sponda filmica (e non solo) possibile. Perciò non pù solo splendide coreografie, ironia ridotta all’osso, cupo senso di impotenza: e l’impatto annichilente con un altro orizzonte che letteralmente rompe con la verticalità e torna al corpo a corpo, all’irrisolvibile problema morale. Ossimori, contraddizioni in termini: genocidi eticamente necessari, godimento assoluto dell’hybris che, negando ogni tragica tradizione, conduce finalmente alla vittoria.

Curiosamente allora, laddove è sovraccarico il film e troppo potente il nemico, progressivamente Avengers: Infinity War assume un’aria di funerea elegia, diventa quasi sottile, si inventa un cimitero marino che ricorda i colori dell’aurora, in cui le tombe non portano dolore ma diffondono una luce necessaria e inaccettabile insieme. Vita e morte, rese indistinguibili, producono una strana forma di accecamento che coincide con una diversa possibilità per il visibile, finalmente libero (che lo si creda o no, che se ne sia consci o meno) dal business seriale.

 

 

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