"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Los conductos (Camilo Restrepo)

Saturday, 27 March 2021 18:21

Colore come sangue

Luigi Abiusi

Il corporale, il materico sudamericano, viatico del magico: sugne, bagatelle, ruderi scorciati; qui formicola il mondo crudo e polveroso secondo un immaginario, una concrezione, una crosta che si estende da Rulfo a Bolano, passando per Ripstein, Osvaldo Reynoso mentre ancora rimbomba l’allucinazione di Osvaldo Lamborghini. Contorsioni ossute, spasimi da fumo, da crack nella carne del film, della pelle: la pellicola, 16 millimetri di pellicola (poi trasposti in 2K che lasciano allibiti di fronte alla definizione delle immagini: non un pixel, non un accartocciamento delle cose, un accasciamento delle linee, un accorciamento della luce alla prova della visione in digitale; millimetri e millimetri di materia immaginale che si convertono in magma di bites reggendo; è una transustanziazione, un mesmerismo dentro la storia, dentro la sincronia, la teoria dell’immagine), si fende, apre voragini in sé a cui Nut s’affaccia ricevendo in pieno volto un vento a base di muffa ed eco da lì dove fermenta il sottosuolo, «niente più di una luce», dice Nut facendogli eco Baby, da cui poi si sgranano colori, suoni, i significati delle cose. Il girare - a vuoto, stantio, stanco - di Nut pur essendo fatico - politico, poetico - aspira al minimo, all’astratto, a una monodia di luce in cui perdersi per non sentire più il peso delle cose, dei ruderi, di case accatastate, addossate l’una sull’altra nei suburbi colombiani. E mentre fa questo cabotaggio, carotaggio verso l’essenza, l’informe («il mondo sarebbe semplice se esso rimanesse informe»), il sibilo esclusivo dei significanti, del significante primevo, la luce, Los Conductos (miglior opera prima alla Berlinale 2020) diviene sbaraglio di forme dicendo, mostrando l’impossibilità di uscirne: delirio sorto dalla corporeità della visione di Camilo Restrepo, come già nei suoi cortometraggi.

Le immagini, attingendo alla cosiddetta diegesi (il rifugio costituito da una fabbrica di stoffe in cui si pigmentano, si impregnano di pitture sgargianti i tessuti, magliette, tendaggi) si saturano, si estenuano di colori già a partire dai quadri iniziali dei titoli e poi di quelli finali, fauvistici; si fanno superficie porosa, ruvida di tele a tempera; si sperimentano su sfondi improvvisi ai fosfori verdi, ai fosfori rossi, poi neri, baratri, grigi giri su strade, dentro gallerie percorse a ritmo di techno da un’auto-da-scontro fatta di vecchie lamiere: gialle e rosse. È il delirio, il deambulare di un umano randagio per la città, alla ricerca di un cuore di rame divenuto grosso gomitolo di lana alla fine, in una parata paramilitare: il trascinarsi sulla terra delle forme, delle soluzioni, ingiunzioni sociali che diserbano gl’io, gli tolgono aria, luce. C’è un trascolorare continuo in questo film prodigioso - tanto profetico, lirico, quanto periferico, stracciato e teppista -, un transito del realismo fatto del corpo, della pittura (carne, tela, pellicola, colore come sangue dell’immagine) nel magico stravolto, onirico, impresso nei bulbi oculari di Nut. È un film di collegamenti, di ellissi in cui le immagini sono libere di significare al di là dell’assunto arrivando a una ritualità notturna, che si svolge intorno a un fuoco e al cuore di rame: ruvido realismo e mito, tragedia costellata dal coro, come una preghiera rabbiosa che sfocia nella cerimonia del cielo dopo i titoli di coda. Abbaglia in mistica percussione, rimbombo che viene dalla terra segreta, profonda; persiste di nuvole e soli, rimugina sull’origine, sul tempo, al di là del tempo (di una sequenza).

 

 

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