"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Need for Speed (Scott Vaugh)

Saturday, 11 April 2015 15:15

Ritorno al faro

Andrea Pastor

ritorno di macchine, di automobili desideranti in Need for Speed. L’officina Lumière si riapre in colori hopperiani, assumendo il nome di Marshall Motors. Motori rombanti in 3D che percuotono lo schermo senza mai farlo deflagrare nel digitale, che finge di non esserci più, o di non esserci ancora (stato), nonostante i bolidi veloci e furiosi siano già magnificati alla settima potenza. Non è solo Tobey, il loro pilota, ad avere perso il padre, tutti i ragazzi del garage Waugh, gioventù infiammabile, sembrano orfani, comunità autosufficiente di fratelli senza immagine primigenia, ragazzi nel loro hangar senza domani, su una strada, nemmeno più coppoliana, accarezzata fin dall’inizio da un dolly discreto ma anche romantico, già melò, prima che si materializzi la protagonista assoluta del film, la pulsante energia che trapassa dal loro guardarsi al guardare in/la macchina, l’auto rimessa a nuovo, più veloce che mai. Nessuna traccia di videogioco nelle strade peckinpahiane, anarchicamente violate da Tobey in quasi 48 ore, verso il sole dei grand canyons attraversati da bolidi come stati di alterazione, volontà di giustizia e di verità, più che di vendetta, dal pensiero forte e dalla forma lieve di un cinema che il regista Scott Waugh, ex stunt-man, sembra dedicare a se stesso e ai suoi compagni di gioco, di squadra, alle controfigure che hanno dato forma, nel passato, ad acts of valor (Speed, Fuga da Los Angeles, Spiderman, xXx, tra gli altri) nei quali la vita, come è sempre accaduto nel cinema peraltro, e non solo per gli stunt-man, viene messa in gioco per amore della simulazione filmica. Uomini acrobati come figurazione letterale della morte e della vita davanti alla macchina da presa. È in questo fingere l’on the road, dove il maschio e la femmina sembrano intercambiabili, dove il guardarsi negli occhi è l'unico espediente per non cedere all’angoscia del vuoto, dove il (cinema) moderno sembra non aver mai avuto un post, dove non sembra più esistere (e si fa finta non essere mai esistito) un regista Monarch, (dove un Michael Keaton, lo stesso Waugh?, non ancora birdman, ma nemmeno più vanishing point, è un'immagine incerta, pseudo demiurgo perennemente in Rec), è in questa mascherata da pop corn movie, è nel suo essere così flagrantemente lontano da qualsivoglia riconoscibile canone che dimora l’irriconoscibilità del film, il suo farsi darsi fuori tempo massimo, il suo correre al faro in pieno sole, pronto a gettare luce su un’altra lentissima velocissima corsa navigazione che non avrà, credo, mai luogo. Né tempo.

À propos de Venise (Jean-Marie Straub)

Saturday, 11 April 2015 14:56

Giocare la partita dei flutti

Rinaldo Censi

Nel 1902, dopo diversi viaggi in loco, Maurice Barrès pubblica La mort de Venise. Nel 2014 Jean-Marie Straub isola nove pagine e ne fa un film, À propos de Venise, con un lago al posto dei canali. Per entrambi, la Serenissima è già perduta nel '700, quando due “cariatidi” come Goethe e Chateaubriand la frequentano.

Tre punti nello spazio, ciò che resta di un movimento che immagino da sinistra a destra. Tre inquadrature fisse. 1) Un tronco d’albero sulla riva del lago. 2) Un grosso ramo che posa sull’acqua. 3) Una donna seduta, un microfono, un prato e il lago alle spalle. Il testo re-citato, le pause, le cesure: gli a capo corrispondono a precisi stacchi sull’asse. È un moto ondoso testuale, tipografico, che si lega a quello lacustre. Idea di ritmo e contrappunto: la massa d’acqua, la luce, le anatre, gli insetti, il testo. Tre inquadrature. Poi uno stacco, un blocco di nero, ci catapulta davanti agli occhi un’inquadratura di Chronik der Anna Magdalena Bach (1967): BWV 205, Zerreißet, zersprenget, zertrümmert die Gruft (Lacerate, devastate e distruggete la tomba). Con un ghigno selvaggio, Bach aveva composto il suo “dramma per musica” pensando a Virgilio e a Eolo, con i suoi venti distruttori. Sono loro che creano le onde? E cosa distruggono? (Trop tôt trop tard – 1982, due grattacieli gemelli riflessi nel Nilo si sfaldano nello sciabordio dell’acqua.)

Il recitato e l’aria di Bach sono posti in posizione inedita – dialettica. Si pensi a Proposta in quattro parti, Cézanne o al recente Kommunisten: è la stessa rigidezza del concetto di filmografia ad entrare in crisi. Logica dell’essai – non si tratta di trasgredire una forma, quanto di testarne i limiti, coglierne la dimesione prismatica verificandone le variabili.

Giocare la partita coi flutti, direbbe Mallarmé. Creare correnti sotterranee tra i film. Forse la storia del cinema non è altro che il processo interminabile di una “ricaduta” filmica simile al moto ondoso. Nulla è fisso. 

Adieu au Langage 3D (Jean-Luc Godard)

Saturday, 11 April 2015 14:33

A-God-Ar-dieu (su Adieu au Langage, più Remercement…)

Bruno Roberti 

 Chiens perdus sans collier, le quattro mura di una casa. La casa del mondo. Le forze forti e le forze deboli… la gravità. La caduta dei gravi, dei pesi, uccelli sul ramo, trafitti, caduti, involati. Il fiume scorre, andirivieni sulle sponde de Lac de Gèneve. I quattro elementi, i quattro lati del mondo. Attrazione elettromagnetica, la mela che cade sulla testa di Newton. Il peso dei gravi… oh leggerezza del dimenticare o del ricordarsi!

 Le temps passè, le temps passè… ritrovare il tempo, trovare il tempo, lasciarlo cadere. Alors je rentre a la maison. Dimenticarsi le battute, entrare e uscire di scena (dietro le quinte). A-Dieu Manoel! Guardare attraverso quella finestra, una finestra sul reale… come inquadrarla? E come intra/vedere lo slittino sulla neve, e poi rientrare, in piano sequenza, nella casa dei padri e delle madri? È il Qatre de chiffre, Potere del Quarto (buon centenario Orson!). Il Quarto! (che è il diavolo che ci mette la coda, il quaternion di cui parla Jung).

 Quattro lati, quattro grandi cinematografie, dice Godard, la Russa, la Tedesca, la Francese, l’Americana… e poi La Grande Lingua Italiana, cinema senza uniforme, lingua della realtà appunto, lingua scritta del reale, scritta con i pezzi del reale (‘che la realtà non sia infine che un cinema in natura?’ diceva P.P.P., eppure non ci è dato mai vedere, in realtà, il nostro volto in PPP, ne deriva ‘che il primo e principale dei linguaggi umani può essere considerata l’azione stessa’).

 Allora: rientro a casa con Le ceneri di Gramsci, dice Godard (ca parle de l’humble corruption), ed è lì che ‘cade l’ombra’, ombra e baleno, ‘come morto corpo cade’, ma si sprigiona anche da una nuvola nera una luce rosata… come è intraducibile, e in fondo inutile, il linguaggio, che, come il cinema, non può mai essere declinato ‘al futuro’(nella saletta di proiezione di Le Mèpris), proprio perché è nel momento in cui entra in azione: qualcosa nonostante tutto ‘accade’, è un continuo avvenire che può essere solo in presenza, la dove si dice, dove tutto è lingua, lingua (del) reale.

 Dov’è che cade il corpo (ri-preso a volo) di Godard? E dove, dove va…dove vado? Vado dove vedo/devo. De/Voir: splendida diplopia, e certo se c’è un D1 (Di-uno, Die-un, A–Dieu Uno!) dovrà pur esserci un 2D, e se c’è un D2 (dio doppio, demiurgo), dimidiato e già divis(t)o, ci sarà un 3D tra/lasciato, somma inutilità (ma anche Somma Luce, cioè diffrazione di ciò che si ri-vela nella luce del Reale, nel buco del reale, da cui proviene quella luce, luce rosata…).

“Cade però, nell’irrisione, ogni idea precostituita di futuro” (appunto 84)

Vous vous souvenez?

Lost Themes (John Carpenter)

Saturday, 11 April 2015 12:35

Senza futuro: film. John Carpenter’s Lost Themes

Giulia D’Agnolo Vallan

Le musiche di Carpenter sono in scope, come i suoi film. Hanno la stessa ambizione spaziale. La stessa istintiva eleganza. La stessa texture erotica e quella matericità della suspense che pochi come lui sanno imprimere al fotogramma, alla fluidità di un movimento di macchina. 

Carpenter lavora ormai così raramente che la tentazione di tradurre questi lost themes in lost films - in film perduti, che non e mai riuscito a fare - è forte al punto che qualcuno ha persino provato a immaginarli: una vittima che corre inseguita in una foresta, un’altra perseguitata da un fantasma... Lo stesso Carpenter ha detto di aver concepito ogni canzone come un film a sé, composto di temi/scene diversi.  Ma questo impulso alla visualizzazione è fuorviante, dato che i lost themes sono film che lui non ha mai scritto, visto, sognato, o per cui si è battuto. Completamente astratti.

Ma, ci dicono queste undici canzoni improvvisate sulla tastiera di casa, che dietro ai titoli prevedibilmente minimal (Mystery, Vortex, Night, Fallen..) nascondono sonorità  barocche, synth-ornatissime, nella loro sensibilità retro (Bach come sempre, Morricone, i Beatles ma anche l’euforica cheesiness di gruppi come Abba o Procol Harum): sono questi i film che Carpenter (da) oggi è disposto a fare.  “Senza pressioni di sorta, senza attori che mi chiedono istruzioni, senza una troupe che mi aspetta, una sala di montaggio in cui andare, una data d’uscita in sala”.

George Romero sta finendo un ciclo di graphic novels per la Marvel, Empire of the Dead. La prima graphic novel di Walter Hill, Balles perdues, è appena uscita in Francia. Ma se i loro scivolamenti di medium riflettono un contesto in cui per autori come Hill, Romero o  Carpenter è sempre piu’ difficile fare film, lo scivolamento di Carpenter sembra rispondere a una necessità fisiologica più profonda, interiore.

Come succede nei suoi ultimi lavori, anche i momenti migliori di Lost Themes sono quelli - sempre più rari - di abbandono. Quel senso di lasciarsi andare quasi fisico, che anima per esempio la corsa d’inizio di Pro-Life (ripresa nell’apertura di The Ward) la maggior parte di Vampires e la sequenza della possessione in Ghosts of Mars... Spesso sono i riff alla tastiera di suo figlio Cody (cui si devono alcuni brandelli del disco) e la chitarra lancinante del figlioccio del regista, Sean Daniels, che scompigliano la (dis)attenzione della “maniera Carpenter” e lo trascinano - dietro alla coolness delle superfici - dentro quell’identificazione totale con il cinema e la sua fattura, che sta al cuore del romanticismo schivo, “americano”, che attraversa la sua opera.

Sono momenti di gioia, effervescenti. Commoventi, esagerati e - lui sarebbe d’accordo - quasi “ridicoli”.

Too Much Johnson (Orson Welles)

Saturday, 11 April 2015 12:29

Il fragore di una stella

Ciro Giorgini

È probabile che l’unico futuro di cui valga la pena parlare è l’essere postumi. Se non altro perché in qualche caso – come il Caso Orson Welles – l’essere ammette senza più dubbi l’essenzialità del non essere. Essenziale per poter essere sempre in troppi e di troppo a se stessi, per sapersi indefinitamente rilanciato e rilanciabile. Il fatto è che Too Much Johnson non prende neppure in considerazione la possibilità di essere unfinished, neppure come sostituto cubista di quinta teatrale. Al di là della trama o dei finali più o meno aperti, è compiutissimo il tramarsi interno, assoluto anche nelle singole ripetizioni di ciak, concluso anche come sogno di future illimitate versioni. È il Metodo-Arkadin: “There is always a better way”. Si nega la forma chiusa, molto meglio un giro fulminante di palmizi, accostamenti di velocità contrapposte che collidono o si allontanano nello stesso fotogramma. Al centro i due amanti che si avvicinano o si scostano nella situazione del bacio, e intorno l’immagine circolare, palme che girano. Così oltre alla velocità dei movimenti c’è anche quella prodotta dall’espansione della scena. Allora questa pantomima, che risucchia e rigurgita Keystone, che fa meglio degli intermezzi di René Clair, che anticipa lo scandaglio architettonico di Antonioni, è uno spazio che si allunga come una faglia pronta al terremoto, così inattuale, da scartare la necessità di propaganda del suo tempo (1938), appannaggio di un’astralità che invece è di paurosa esattezza politica (pure il ‘rosso’ John Berry aiuto regia), vocazione vulcanica alla pace, mentre tutto il mondo si prepara alla guerra. Più che l’anello mancante di una filmografia mobile, Too Much Johnson è una penna sconosciuta, il tratto imprevisto e imprevedibile, quello che fin da allora un ragazzo di ventitré anni sapeva sul montaggio, due immagini vicine non sono la loro somma, ma una terza immagine. Lassù sui tetti ci sono delle altezze sfalsate, un grattacielo messo accanto a una terrazza prensile, dà luogo a un vuoto che è un cielo, dove se ci passa qualcuno velocemente, la velocità è amplificata, come il fragore di una stella.

Questo testo, che io e Ciro Giorgini abbiamo scritto appositamente per questa rivista, è apparso anche su il manifesto di martedì 7 aprile 2015. Ciao Ciro. (l.e.) 

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