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Yamada Yôji

Monday, 11 July 2016 15:14

Della sconfitta, dell’umano

Erik Negro

Della sconfitta. Era il 2014, poco prima del Festival di Rotterdam mancò mia nonna. Indeciso sul partire o meno, mi affidai come sempre (almeno allora, quando fui giovane per davvero) alla strada. Al funerale non riuscii a piangere, scappai a casa per fare le valigie, direzione stazione, molte ore di treno mi separavano dall’Olanda ed il festival era già iniziato. Dopo l’IFFR mi trasferii direttamente a Berlino, e quelle lacrime tardavano ancora a scendere, come se mi appartenessero infinitamente, come se non potessi donarle a una realtà che sentivo sempre più fredda intorno a me. E venne l’ultimo giorno della Berlinale, il mio ultimo film, The Little House. Lungo quelle due ore le prime lacrime incominciarono a scorrere, per esplodere nel finale. Corsi alla conferenza stampa, per altro deserta, aspettai il vecchio maestro, lo abbracciai e lui ricambiò con infinita grazia. Mi sentii sconfitto in quel tardo pomeriggio, o forse solamente indegno di quel calore. In giornate come queste, in cui sento che anche mio nonno pian piano pare sfuggire a questo pianeta infame, non potevo che iniziare un piccola e dissennata riflessione su Yamada Yôji così, con quelle lacrime che forse solo lui ha potuto condensare, e di cui solo ora riesco a comprendere a pieno il significato.

 

Yamada è un ottantaquattrenne sereno e malinconico, un personaggio unico, infinitamente umano e terribilmente distante dal nostro caos, dalla nostra aridità, dalla nostra vacuità. Entrato da giovanissimo nella Shochiku (con Yoshitaro Nomura) se ne ritiene un umile impiegato, un lavoratore onesto ed infaticabile che nella logica infinita dei rapporti di produzione (ed espressione) di un film ricopre il ruolo del capo cantiere, di colui che deve portare a termine il progetto (quasi un centinaio di film al suo attivo come regista ed ancor di più come sceneggiatore) per consegnarlo ad un pubblico. In realtà appare ben chiaro, già dalla monumentale e splendida epopea di Tora-San (48 film, dal 1969 al 1985, tutti con protagonista lo stesso Kiyoshi Atsumi) la straordinarietà dello Yamada autore, operaio ed intellettuale di mezzo tra le epoche di un Giappone che subisce la vorticosa deriva di valori e di linguaggi, confinato in una catarsi etica paralizzata e disumanizzante. Figlio di Ozu e padre di Kore-Eda (se mai potessero valere queste riflessioni) il mite saggio di Toyonaka ancora oggi ci invita a riflettere e ad amare, attraversando il cinema, con una leggerezza sconvolgente e dolcissima, cercando quella sintassi di umanità oramai estirpata da tonnellate di sovrastrutture che noi stessi ci imponiamo. Un uomo, nulla più, cosciente della possibilità sempre più presente della sconfitta e proprio per questo convinto a perseguire la sua strada.

 

Anche per questi motivi il titolo della serie di Tora-San (Otoko wa Tsurai yo) traducibile in italiano con “è difficile essere uomo” risulta uno dei più completi e sfaccettati ritratti esistenziali mai compiuti al cinema. Il nostro protagonista marinaio e viaggiatore Kuruma Torajirō, è un tenero ed imbranato sbandato eroico che trae la sua origine (e la sua declinazione, in un certo senso) nei racconti dell’antichissima tradizione orale nipponica. Vaga senza una meta (in tutte le regioni del Giappone e non solo), continuamente sconfitto in amore ed incompreso dalla società, tra Don Chisciotte e Charlie Chaplin con quell’espressione eternamente fanciullesca non si arrende, ricomincia la sua lotta nel tentativo irrevocabile di diventare uomo, o almeno esserlo. Lontano dalle norme sociali che si incancreniscono e riducono l’umanità ad una semplicissima accettazione meccanica del proprio ruolo professionale e famigliare, l’antieroe dal cuore d’oro sfugge dall’eredità im-morale del padre e dalla mancata accettazione degli amici, fugge proprio per cercare le proprie radici e le confonde in ogni suo eterno ritorno a cui ogni partire pare ricondurlo. Tora-San è un uomo buono, giusto e libero e proprio e per questo in ogni finale rimane solo e malinconico, ferito nell’anima e spezzato nell’umore, ma mai domo. Riesce a trovare la gioia (apparentemente infantile ed illogica) attraverso la tristezza, giungendo sempre ad una morale di personalissima profondità, di scavo esistenziale dell’esperienza sensibile e istinto comportamentale che definisce la quintessenza dell’eroe tragico classico giapponese, doppiamente battente e battuto da una modernità che avanza con l’impossibilità completa di una sua lettura. Insegue il sentimento ma ne è vittima, aiuta gli altri ma provocherà spesso dolore, dona tutto quello che possiede perseguendo la natura riflessiva ed effimera della vita e per questo è un romantico senza speranza che deride la mancanza di libertà altrui. Mentre la società corre verso un imbarbarimento lui rimane fedele ai suoi valori, alla propria completa mancanza di pretese, a quella tradizione fondata sul rispetto e sulla comprensione, che non appartiene più in alcun modo al Sol Levante contemporaneo. Per lo stesso Yamada doveva simboleggiare colui che rimane ignaro alla modernizzazione dei tempi, colui che in fondo vive esclusivamente per portare la felicità a coloro che ama. Proprio per questi motivi questa serie (unica nell’intera storia dell’immagine e del suo movimento) si conclude solo con la prematura scomparsa di Kyoshi Astumi, il volto e l’espressione di Tora-San, l’unico a cui poteva appartenere, come se mai fosse cresciuto. Un bambino, nulla più.

 

Sconfitti dall’amore e dalla società come Torajirō, sconfitti dal passato come il protagonista Haruka Naru Yama no yobigoe che attraverso la vergogna di una redenzione dagli errori di impeto e passione compiuti in precedenza cerca la speranza in una vertigine di sensi di colpa. Sconfitti dalla società come lo stesso Takakura in Shiawase no kiiroi hankachi veterano ed ex carcerato, burbero e sbandato, in sintonia con le norme sociali ma spaventato dalla comunità, dedito al viaggio ed alla redenzione in eclatanti gesti di altruismo disinteressato; sconfitti dall’onore e basta, come i soggetti che ruotano intorno alla trilogia dei samurai.

Poi ci sono gli sconfitti dalla storia, proprio quelli di The Little House, un soffio al cuore, un viaggio all’indietro nel tempo, lo spazio di un momento. Basato sul pluripremiato romanzo di Koko Nakajima si incentra su una relazione d’amore che si svolge all’interno di una piccola casa; fino a quando la guerra pian piano si porterà via tutto. Per sessant’anni rimane solo la memoria, poi quella stessa casa, una spiaggia ed una lettera, un trittico (troppo) umano che condensa la genesi ed il crollo di un emozione lunga una esistenza. Davvero non serve nulla d’altro. Il presente, il passato ed il futuro si fondono e si riflettono nella lacrima del ricordo, nella messa in scena dei timidi e nudi sentimenti di un’epoca che non c’è più, metafora di un cinema che non potremo più vedere. Il senso di perdita che accompagna ogni tipo di morte, anche quella di un mondo più cosciente, non ha bisogno di nessun invocazione e può solo essere esorcizzata dall’inchiostro vivo di un ricordo. Nemmeno la speranza può morire, fino a quando ci sarà ancora una spiaggia da attraversare dove potremo riconoscerci e torneremo a raccontarci quello squarcio di durata in cui ci siamo separati. Con quello sguardo che riconcilia alla vita, lo stesso di questo Yamada senile ed infinitamente grande.

 

Infine gli sconfitti del tempo. Sessantanni dopo uno dei più straordinari capolavori della storia del cinema, di cui fu per altro assistente alla regia, Yamada decide personalmente di ri-girare Tokyo Monogatari, quasi volesse cercarne i risvolti attuali, modularlo sul terzo millennio e sulle spalle di un Giappone appena uscito dalla crisi nucleare (e morale) di Fukushima, e senza direzione. Ne emerge una solitudine generazionale più marcata e complessa, un senso di abbandono riflesso di apnee emozionali, un tempo che scorre in modo sempre più impercettibile e vorticoso. Tokyo Family (forse dovrebbe esser chiamato “è dura essere una famiglia”) rivifica il monumentale Ozu, lo ricontestualizza condensando il baratro della distanza che il maestro aveva già segnato; con lo stesso rigore formale, la stessa percezione dell’inquadratura, la stessa struttura dei contenuti elabora una nuova essenza dei rapporti personali in conflitto con lo sfaldamento sempre più profondo del reale. Come appreso dallo stesso maestro crea un immaginario di tensione drammatica continua senza mai calcare la mano, lasciando respirare i propri protagonisti al cospetto del passato e dei propri errori con quel senso continuo di poesia del provvisorio, di comprensione del comportamento, di accezione ai segni e simboli della società in continuo mutamento. Segna ancora una volta il crinale scosceso tra la tradizione ed il (post)moderno, portandosi dietro a se un carico di solitudine e desiderio, di amore e di famiglia. Proprio anche per questi motivi nonostante il suo apparente conservatorismo linguistico radicale e la sua profonda appartenenza culturale, come lo stesso Ozu si rivolge a tutti, interrogandoci, chiede di aprirci agli altri prima che a noi stessi, ci invita solamente a essere umani in ogni piccolo nostro gesto possibile.

 

 

Dell’umano. A pensarci bene gli sconfitti di Yamada, lo sono solo in apparenza. In apparenza perchè è la stessa convenzione attuale a sconfiggerli, il costume di un momento storico strutturato su una superficialità di animo e di linguaggi che non può appartenere allo stesso autore. Un uomo anzitutto, uno dei pochi rimasti ad aver vissuto l’esperienza diretta della guerra in Giappone, il dramma dell’atomica, l’orrore del periodo imperiale e tutte le tragiche conseguenze che la sua generazione avvertì. La resistenza e il coraggio che Yamada ci mostra dovrebbero essere l’ispirazione stessa ad un nuovo modo di vedere le cose, perchè ha ancora la forza di essere il cinema stesso che gira, di far fluire e scorrere i sentimenti per mettersi poi metodicamente a coglierli, attraversando generi e tendenze, rimanendo profondamente legato alla sua personalissima esperienza umanista. Un uomo appunto, un uomo e basta, che vive per la sua libertà di far esistere la flagranza di un sentimento nella sua sincera e drammatica essenza, con profondissimo amore. Così Yamada Yôji condivide la sorte dei suoi sconfitti, che sconfitti non sono perchè tutti riescono ancora ad amare, proprio come fa lui.

 

 

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