"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

  •  FP18

    NAKED LUNCH

    David Cronenberg     Albert Serra     Quentin Tarantino
    enrico ghezzi    Michael Mann    Fred Wiseman
    Paul Schrader    Robert Wyatt    Nick Mason

prev next

Naked

C’è un pesce fuor d'acqua! O JMS il selvaggio

Se “uccello in gabbia canta o per tristezza o per rabbia” al pesce non è dato neanche il suono (almeno non per il nostro limitato udito), è pura immagine, è memoria permanente di un altrove e segno tangibile di un crudele quanto vanitoso bisogno umano di ricreazione. L’acquario è uno spazio mimetico, costruito a immagine e somiglianza di un altro; non prevede sfruttamento economico, non ha fini “scientifici” ma ludici e ornamentali, questo lo rende più vicino a quello che noi chiamiamo “arte”, addirittura può essere visto come un trionfo dell’arte “naturalista”. Di fronte a un acquario si pensa all’acqua senza confini, ci si può ritrovare in una “fantasia sottomarina”, in un “balletto acquatico” oppure sentirsi sprofondare in un carcere abissale, bisogna metterci molta forza e attenzione per non lasciarsi catapultare altrove e prendere coscienza della miseria (umana) sotto i nostri occhi. Da una parte Rossellini, che attraverso l’inquadratura elimina i confini, attraverso il cinema vivifica i morti, spazio e tempo sono infiniti, quella bacinella d’acqua e i guizzi dei fili di lenza che tirano i pesci diventano tutto il mare possibile, l’anno 0, 1 o 51. Dall’altra il finale del film di Coppola Rumble Fish, che con The Outsiders compone un dittico (e qui è di film polittici che andiamo a parlare), il demiurgo senza nome Mickey Rourke, fratello maggiore daltonico da cui mutuiamo lo sguardo bianco e nero, muore per liberare dei pesci combattenti dagli acquari di un negozio, convinto che una volta liberi non sentano il bisogno di uccidersi a vicenda, che cattiveria e cattività abbiano più che una radice in comune. O in Bright Future di Kyoshi Kurosawa la medusa fuggita dalla vasca la ritroviamo luminosa e moltiplicata nei canali putridi di Tokyo mentre ragazzi con la maglietta del Che scendono in strada. In entrambi i film “usciamo” dall’acquario per entrare in un altro “regno”: i pesci assumono un’aura speciale attraverso effetti elettronici, il “ragazzo della motocicletta” è un sogno fatto di cinema come l’Ernesto Guevara pop è il marchio di una zuppa a base di eroismo esotico. D’accordo con Straub che “il n’y a pas de film politique sans morale, il n’y a pas de film politique sans théologie, il n’y a pas de film politique sans mystique1” siamo nell’ambito del politico, per la morale di Coppola e per la mistica di Kurosawa; Rossellini è un’altra cosa, restringendo l’inquadratura e aprendo alla fantasia condensa tutto nello stesso istante, ci troviamo nell’unico mondo possibile, non c’è mistico ma mitico, non c’è teologia ma al massimo teofania, la morale si piega al desiderio e si perde nell’enigma paradossale (si annega anche in un bicchiere d’acqua). È evidente un istinto di fuga connaturato all’immagine dell’acquario, ma essendo questo un cosmo, anche se micro e a portata di mano, non è dato superarlo, trascenderlo, si può solo distruggere, riportare il cosmo al caos. Ma altrettanto evidente è che si rimane chiusi nel meccanismo spettacolare, il permesso si oppone assolutamente al possibile, c’è bisogno di una mano che dall’esterno nutra, muova o trafughi quegli esseri indifferenti che pare del mare non abbiano desiderio né ricordo, sono nati e nuotano vedendosi in uno specchio, trovarsi faccia a faccia con l’infinito probabilmente li ucciderebbe. L’acquario è superato solo attraverso l’artificio cinematografico, sia l’effetto elettronico che rende colorati i pesci combattenti, l’aura digitale delle meduse, le lenze “artigianali” o la voce fuori campo di Fantasia sottomarina. Il cinema permette l’inserimento di “arazzi di spazi e tempi diversi in un solo luogo schermico. L’immagine diventa potenziale, contiene diverse inquadrature e disposizioni, funziona da memoria permanente con strati che cadono e si mescolano l’uno nell’altro2.”

L’AQUARIUM ET LA NATION (JEAN-MARIE STRAUB)A Straub non interessa fare una riproduzione, siamo già davanti a un finto mare e dei “finti” pesci; non interessa trascendere l’acquario e men che meno attraverso un artificio; siamo davanti a una critica della separazione, “la questione non è constatare che gli individui vivono più o meno poveramente; ma sempre in un modo che sfugge loro3.” Trova un’inquadratura unica che ne coglie le trasparenze e gli spazi. Vediamo tre pareti, quella sinistra è a specchio, i due vetri, che paralleli si stagliano di fronte, attraversati da pesci di diversa grandezza e diversi colori, dal giallo al rosso all’arancione, lasciano intravedere un’altra parete di vetro attraversato da ombre di un altro spazio (probabilmente un marciapiede). Il lato destro dello schermo (4:3) è occupato quasi interamente dal tronco di una pianta acquatica, la luce che arriva dalla vetrina sullo sfondo ne fa un monolite nero in cui si riflette la camera e attorno al quale i pesci si aggirano come ad evidenziare l’oscura presenza. È tutto lì, è tutto svelato, non c’è trucco né finzione, non c’è montaggio, quei mondi separati, contigui e paralleli sono colti in un colpo d’occhio, senza bisogno di tagli, accostamenti, sovrimpressioni, sono una cosa sola; non c’è controcampo possibile. Addio alla lingua; Straub con una sola inquadratura ribadisce l’addio al linguaggio di Godard. Per sei minuti non c’è suono, il film è muto come un pesce, come a segnare la ricerca di un’empatia, di un rapporto orizzontale con quegli esseri costretti e silenti nella loro dimensione artificiale. La luce di Straub (e Huillet), che ci ha fatto sentire gli alberi e le pietre, dona una lingua finanche ai pesci, l’essere muto per eccellenza. Ma non sentiamo niente, c’è una quiete innaturale, come prima di una tempesta, di un’eclisse o di un terremoto. Il silenzio assorda, manca l’aria, Straub ci mette davanti allo specchio, ci mostra i vetri che ci separano l’un l’altro, l’estraneità e la solitudine…siamo anche noi un acquario, siamo quei pesci e stiamo annegando, in un bicchier d’acqua. Non c’è controcampo, non c’è scampo. A smuoverci dall’indifferenza e dal torpore arriva da fuori la musica di Haydn, Le sette ultime parole del Cristo in croce, composta intorno al 1787 ed eseguita nel 1794, strutturata in sette movimenti con un’introduzione (la parte che ascoltiamo nel film) e un finale intitolato Terremoto. Un testo senza parole, come scriveva l’autore “Ogni sonata, o ogni testo, è espresso dai soli mezzi della musica strumentale in maniera tale che solleciterà necessariamente l’impressione più profonda nell’animo dell’ascoltatore più distratto.” 

READ MORE

- Questo sito utilizza cookies, anche di terze parti, per migliorare la tua esperienza e gestire la tua navigazione in questo sito. I cookies necessari al funzionamento del sito sono già stati installati.Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookies, consulta la Cookies policy.

  Accetto i cookies da questo sito.
EU Cookie Directive Module Information