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MAKE WAY FOR TOMORROW - We Are Who We Are (Luca Guadagnino)

Sunday, 14 March 2021 13:58

Andrea Pastor

Time will tell

Se, con Fassbinder, citando il titolo di un suo serial televisivo, disturbante come sempre, e ‘berlinale’, Otto ore non fanno un giorno, le otto ore di durata del rosselliniano e quasi ‘miracoloso’ serial HBO di Guadagnino We Are Who We Are danno a vedere, materializzandolo e cogliendolo in flagrante, un qui ed ora (im)possibile, e non solo perché datato duemilasedici, che si inscrive all’inizio di ogni puntata, subito dopo il titolo, sempre mutevole nella grafica, nella colorazione, nella composizione dei caratteri, uno spazio e un tempo filmici di rara bellezza, rigore e precisione del gesto, e per me, che non ho mai apprezzato il suo cinema (salvo poche eccezioni, i suoi Elisa e Irene Grandi videoclip, Melissa P. e Chiamami col tuo nome), del tutto inattesi e sorprendenti, al punto tale che lo considero il miglior film, fittiziamente seriale, dell’anno scorso. Filmparlato per eccellenza, sono la vita, l’amore, la morte, il lutto, il Corpo e i corpi, le pulsioni, le posture, gli sguardi in un fuori campo destinato sempre e comunque a essere l’altrove e il differente da sé, sono i moti a e in luogo di identità, anche sessuali, in perenne ricerca di verità, è la musica che proviene dai dispositivi e quella cosiddetta extradiegetica, è la colonna sonora che è immediatamente musica delle vene, dell’inconscio e dell’anima, a farsi filmare con rara passione e intensità, puntata dopo puntata, là dove persino i ralenti e i fermo immagine, materiali come sempre ad alto rischio, accadono, senza ombra di estetismo, quasi a voler sospendere le significazioni, dilatando all’infinito il senso..

..ma è soprattutto il Desiderio, senza più alcun tetto né legge o (omo o trans)gender, predefinito e istituzionalizzato, senza divise, ma solo dotato di ‘magliette’, a cercare di darsi (e chiamarsi con) un nome, un punto di vista singolare, doppio o plurale che sia, una forma, un’immagine appropriata, cangiante e deflagrante, che ecceda, magari anche per sottrazione, le regole, i codici, i respiri, i ritmi delle narrazioni, delle stagioni delle serie tv cui siamo più allenati, anche quelle che appaiono più cariche di Euphoria..

..è il trapassare delle stagioni, la pioggia, il vento, i tuoni, la luce kechichiana del sole che bagna il mare, il sangue mestruale e la spiaggia, sono le danze, quelle en plein air e quelle, duali, marcate dall’amore, da un matrimonio improvvisato prima e dall’elaborazione del lutto per una morte violenta poi, dove una villa vuota dei ‘russi’ diventa la scenografia di due indimenticabili ensemble (il primo, alla fine del quarto episodio, nutrito da spaghetti, alcool, video, vomito ed erotismo, alla luce del sole e della luna, il secondo, al termine del settimo episodio, alimentato dalla disperazione, dallo scroscio della pioggia, dalle droghe più euforizzanti, dalla distruzione dello stesso set abitato, ora e qui, soltanto più da lisergici spettri), sono i ripetuti, fin dall’inizio, e quanto mai sintomatici, sbadigli di Fraser e di Caitlin, e i continui latrati dei cani in lontananza - che solo nel finale bolognese si acquietano per lasciare posto al mattinale tubare dei piccioni -, o sono ancora i numerosi specchi che si ritagliano il dovuto spazio nell’inquadratura, quelli nei quali ci si può riflettere e tentare di riconoscersi gli uni accanto agli altri, le une accanto alle altre, a marcare un tempo e uno spazio che sono sì, stati pulsionali, ma anche totalmente mentali e schermici, a far provare allo spettatore lo stesso amore provato da Guadagnino per tutti i suoi personaggi, e sono ancora e sempre gli stati dell’immagine e del suono, finalmente ritrovati (dopo tanti film, remakes o meno che io, a questo punto, salvo quelli citati sopra, non posso che vedere come bozzetti, come prove d’autore), è il suo sguardo di sapiente e ipersensibile metteur en scène a farci sentire, puntata dopo puntata, che gli occhi ‘non mentono mai’, e questo quanto più la mdp, saltuariamente, ma sempre precisa e morbida, arriva a fronteggiarli, pudicamente implacabile, filmandoli in dettaglio, nel loro a volte disperato, a tratti ‘solo’ amoroso, trepido, ottuso, guardare..
Hic et nunc, come luogo principale della (non) storia una base militare, un non luogo, come è stato scritto dai più, dagli esegeti (fra i quali si distingue, appassionato e sapienziale, Roberto Silvestri per il suo iperdinamico, irraggiungibile, scritto per DinamoPress), l’unico dove, paradossalmente, può aver luogo e trovare, per contrasto, la necessaria temporalità, l’incessante divenire e trasformarsi di soggetti tesi al raggiungimento di una propria, irriducibile, antagonista, soggettività, quella che, una volta dispiegatasi, nell’ultima puntata, non può che portare al treno, alla ‘fuga’ a Bologna, ad allontanarsi dalle case delle due madri e dei padri, a un concerto dove si possono ritrovare, per poi abbandonarli, un amico immaginario, una band ascoltata fino ad allora soltanto in cuffia e che, rossellinianamente, song to song, si materializza sul palcoscenico di un club, un’immissione di vero che non può che condurre, con la sua musica e soprattutto con i suoi versi, a un’alba che è tutte le albe del mondo, quelle dove il cielo, raggiunto con un morbido movimento ascensionale di Guadagnino, custodisce, forse proteggendolo, un primo bacio che, come tutti i primi baci, potrebbe anche essere l’ultimo.

 

 

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