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GET BACK (to the ordet) - Benedetta (Paul Verhoeven)

Wednesday, 18 May 2022 17:34

Andrea Pastor

Interno di un convento

 

 

..l’uomo Gesù appare, più che accoglitivo, desiderante, alla Benedetta di Paul Verhoeven ed è stato scandalo (in Italia, perlomeno, dove il film non è mai stato e probabilmente non sarà mai distribuito nelle nostre sale), o incomprensione (a Cannes, l’anno scorso, il film, presentato in concorso, non ha ottenuto nessun premio dalla giuria). Lo scandalo però non credo sia mosso soltanto da una statuetta mariana che viene usata come dildo (i teatrali, urlati, grotteschi e scioccanti diavoli russelliani non sono certo stati fonte di ispirazione), penso che risieda, forse più ancora che nei suoi precedenti film, nella forma, nella moralità con cui, sotto le vesti di un racconto immorale all’interno di un monastero, si parla di Desiderio ma anche di Godimento, nel nome di Dio, esaltato e vivificato come tale, non solo enunciato dai dialoghi ma dato a sentire filmicamente, nella sua evidenza, con un nitore, sia pur eretico e incendiario, con una trasparenza che da Rossellini porta a Bresson e a Rivette. Les religieuses si denudano, si scambiano sguardi desideranti e si danno piacere reciproco, nel Nome del (Dio) Padre ma anche nel Nome della Madre (superiora), di una Rampling ritrovata che dopo moltissimi anni si fa rilavorare dalla perversione e dal sadomasochismo, vittima e carnefice di una maternità sempre sull’orlo del non detto, prima dell’hitchcockiano salto nel vuoto della (sorella) Figlia, così lontana e vicinissima alla sorella Ruth di Narciso nero, così aderente, nel senso, al dibattito del femminismo post- lacaniano..e ad un’idea di cinema rivelatorio e rivelato, totalmente privo di autocensura o mediazioni estetizzanti.. Perché Verhoeven, un autore che non cessa mai di rischiare e riformulare il suo estremistico punto di vista sul mondo, e sull’idea di conflitto, è rimasto uno dei pochi grandissimi visionari e pensatori del cinema contemporaneo a mostrare, in tutto il loro fiammeggiare, la libido, la carne, il sangue, il dolore, la violenza e il godimento, materiali incandescenti che fanno deflagrare, anche solo in una singola sequenza, quasi tutte le pratiche filmiche che oggi ci nutrono, i codici, le regole dei giochi che alimentano un immaginario sempre più impoverito e normalizzato, ‘da piattaforma’…perché Verhoeven, materialista e laico teologo di un’Immagine che solo e sempre eccedendosi, ad ogni film, in un di più di realismo, si dà a vedere più vera del vero, frantumando, fin dal suo primo cortometraggio, i limiti consentiti dalle leggi del desiderio che regolano la visione, è da sempre il cantore eretico di un’umanità dolente, straziata, marginale, che si incarna in personaggi gloriosamente, pericolosamente trasgressivi ed estremi, dove i confini tra il Bene e il Male, tra demoni e dei, tra normalità e follia, tra Eros e (in)civiltà, sono incessantemente violati da una forma quanto mai alchemica, solo apparentemente ‘sporca’, che fa di fatto, dell’Ambiguità, la sua cifra più singolare (quell’ambiguità che, ancora una volta, salvo rarissime eccezioni, sembra sempre più venir meno sui maxi o mini schermi di oggi, votati ad una ipernarrazione che ci appare come generata, più che da uno sguardo, da un algoritmo, e dove troppo spesso il marchio di fabbrica, anche quello fittiziamente d’autore, prende il posto del vero sentire, del manifestarsi impudico e smisurato non solo della carne e del sangue, ma anche dell’Occhio, che come sempre al cinema, dovrebbe volere prioritariamente sua parte…).. è così che l’ambiguità di questo sguardo, dei segni ricorrenti che popolano, con mille varianti, il suo cangiante, ossessivo, immaginario, solo apparentemente barbarico, non si limita a riguardarsi riflettere sul cinema preesistente, ma si disloca, si smarca potentemente, con furore, dall’iperconnotato e dolcificante cinema al gusto pizza liquerizia per ‘votarsi’ totalmente, pur all’interno di narrazioni fortissime, alla titanica volontà di cogliere, con la mdp, la vita della pulsione, nel suo divenire, nel suo trasmutarsi, anche nelle sembianze più sgradevoli, perverse e perturbanti, assumendosi tutti i rischi che tale scelta porta con sé. Perché Verhoeven, cineasta quanto mai politico, non ha mai smesso di rischiare, anche con grossi budget, di filmare il movimento incessante del Capitale, della merce, del denaro, i rapporti di forza, i bisogni solo apparentemente primari che non possono sfuggire alle perverse e aberranti logiche del dominio e della sopraffazione. Unico erede, sui generis, e travalicando i generi, dell’antagonismo filmico sacrificale, doloroso, scandaloso e melodrammatico, di Pasolini (di un Pasolini però esente, liberato, dal senso di colpa legato al godimento) e di Fassbinder, della loro disperata vitalità, il cineasta della carne al lavoro non ha mai cessato di indagare furiosamente, in ogni sua opera, il vivere, l’amare il soffrire.. e la sua epica, le sue micro o macro narrazioni grondano incessantemente di umori, sperma, tumefazioni, il suo sangue è sempre e comunque troppo rosso, per essere vero, ma noi ci crediamo. Perché nel suo (iper)realista riattraversamento della Storia , o di un futuro possibile dominato dall’artificio, e dal possibile, la credenza nel (cinema del) trascendente è comunque presente, anche se  più o meno mascherata, occultata, distanziata, esorcizzata..

VIRGINIE EFIRA in BENEDETTA (2021), regia DI PAUL VERHOEVENAnche sui set di Benedetta, questa credenza trova un suo luogo, un suo tempo, credenza nella possibilità che ha il cinema di attingere il vero, l’invisibile, il non figurabile, e questo quanto più sembra mostrare ‘troppo’: è come se le religiose immagini di Dreyer Bresson si ripresentificassero con una nuova carne, senza ellissi, senza partiti presi stilistici, ed è la sua meticolosa, e del tutto libera e fortissima, perennemente in eruzione, idea di cinema, nonostante le arroventate  sceneggiature ‘di ferro‘, che peraltro non si danno mai a sentire, a farsi immediatamente,  a vista, gesto, a far vibrare il narrato, le gesta dei suoi personaggi, delle sue eroine, grazie al rigore matematico della sua scrittura, dettata non solo dalla necessità o dall’urgenza, ma soprattutto da un inesauribile, vulcanico, bisogno di conoscenza che solo il filmare, con precisione assoluta, l’anima inscritta nella carne e nell’eros trionfante, sembra poter acquietare… 

È così che Benedetta, Bartolomea e le altre (sui personaggi maschili, emblemi di un potere ecclesiale integralista e folle, blasfemi depositari della Dottrina e della Legge, ma sempre individualizzati, filmati come soggetti, mai grotteschi, occorrerebbe condurre un’analisi specifica che ora non è possibile compiere..) si muovono, si amano, si fanno godere, si rivelano e si velano, si nascondono, si tradiscono, si danno la morte o lottano per non essere bruciate..è con un lavoro sapiente sull’illuminazione (dal trapasso, quasi impercettibile nel montaggio, oserei dire ‘classicheggiante’, della luce delle candele che punteggiano il nero dei dormitori del convento, a quella, quasi naturale, del giorno, nell’esterno del convento, là dove si muove, come in una coreografia viscontiana, il popolo dei credenti, a quella, ancora, rosseggiante, quasi fiabesca, della cometa, artigianale effetto speciale, quasi demilliano, che mi appare pre CGI); sono gli elementi della scenografia, i veli che separano i letti di Benedetta e Bartolomea, il buco nella parete da dove la Madre Charlotte spia gli atti sessuali nel nuovo spazio conquistato dalla novella badessa ad alimentare non solo la nostra e la loro pulsione scopica, il desiderio che circola fra tutti i corpi, è la tenda trasparente della doccia a generare il primo toccarsi, è il sipario che separa in chiesa il ‘pubblico’ e la sacra rappresentazione di una clericale micro società dello spettacolo, quella che vede la protagonista muovere estatica i piedi e ascendere alla presenza del Cristo, a generare il suo primo, allucinato accedere alla visione del sacro, trionfante, corpo maschile.. sono dunque la materialità della luce, dello spazio, degli oggetti filmati, anche in dettaglio, come valori d’uso oltre che di scambio (si pensi alla statuetta dildo, un vero e proprio hitchcockiano MacGuffin, come raramente ci capita oggi di vedere al cinema), è la musicale, ritmica, intermittente, proliferazione di visioni che turbano e tentano e insanguinano la santa, cristologica,  Benedetta, è ‘ Il Primo Uomo’ Gesù, quello che le e ci appare in ‘ultrapop(olari)’ sembianze, prima pastore, poi ‘combattente’, e infine nudo e crocifisso, sono le veggenti interpunzioni visive da c’era una volta Cristo a Hollywood Babilonia, forse solo sognato, forse ‘reale’, sempre al limite del kitch, così ‘dannatamente’ e oniricamente realistiche, a farci restare per tutto il tempo sulla soglia del dubbio, se credere o meno a ciò che Benedetta vede e sente ..ed è il lavoro sul sonoro, l’inedito uso della voce off del Cristo, così maledettamente realistica e distante dalle sonorità delle voci divine di genere ‘religioso’ o ‘evangelico’, per non parlare del bestiale, quasi friedkiniano, trasmutare della voce di Benedetta nei momenti di maggior pathos, ad instillarci ancora, costantemente, il dubbio sulla verosimiglianza del suo sentire, è il sangue sempre troppo rosso delle stimmate, quello che segna le schiene delle sorelle che si frustano fra le mura del  convento, o quelle dei flagellanti en plein air, così vistosamente realista, mai sadomasochisticamente compiaciuto alla Gibson, sempre e comunque dato a vedere come frutto di ‘maquillage’, a riuscire, paradossalmente,nella sua matericità, a farcene sentire quasi l’odore, a farcelo ‘tangere’, come espressione letteralmente bruciante di un trascendente (im)possibile…

..e continuo a pensare, infine, che Benedetta, sia anche la ‘traduzione santificata al femminile’ di quel film che Verhoeven non ha mai potuto (o voluto) realizzare, quel Vangelo anomalo e gnostico sul quale finora ha scritto solo un libro, peraltro sapiente, documentato, e altrettanto eretico, e continuo a credere di credere che Benedetta non sia solo una rivisitazione in chiave teologicopoliticolibidica, ai confini con l’hard, delle sue melodrammatiche fiammeggianti showgirl che costellano tutti i suoi film, ma che sia anche  il sogno nel sogno di una Cosa chiamata Jésus, il corpo e il sangue (e il Fallo, fuori campo, ma visibile) di Cristo..

 

 

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