"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Arturo Lima

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Phantom Thread (Paul Thomas Anderson)

Saturday, 05 May 2018 08:31

Alla ricerca dell’anima perduta

Arturo Lima

 

Che Paul Thomas Anderson sia un regista feticista è probabile non sia una novità, mentre la notizia è che lui per primo sembra infine essersi convinto a insistere su questa dimensione, l’unica apparentemente in grado di preservarlo dal macchinoso manierismo cui tuttavia continua a mostrarsi devoto (un esempio fra tanti equivocando del tutto la geniale ariosa ironia di Pynchon, scambiata per compatta e inestricabile struttura). A salvarlo invero è l’idea di un personaggio. Alma, giunta a mettere a soqquadro il lato inesorabilmente pomposo del cinema di Thomas Anderson, incarnato qui dall'impareggiabile e di impareggiabile freddezza tessitore di trame d’alta moda, Reynolds Woodcock, il sarto cui non dispiacerebbe cucire un vestito usando il corpo stesso della ragazza, enuclearlo punto a punto spillarlo e farne un pizzo pregiato di pregiatissima giovane pelle umana. Alter ego del cineasta, narciso insopportabile e convinto della bellezza delle sue vesti-immagini, al punto che intere sequenze che lo vedono protagonista assoluto (coadiuvate dal Daniel Day Lewis più barocco) hanno l’aria tipicamente imbolsita del Thomas Anderson che crede nell'assoluto della grande arte cinematografica, ricavandone la solita geometria naturalista che arriva a comprendere montaggio interno e movimenti di macchina, prosciugando qualunque possibilità di libertà filmica. Se non fosse per Alma. Nome per poco non palindromo, nome anima, anima del film che fa respirare inquadrature e danze di merletti altrimenti chiuse in se stesse, e che lentamente e inesorabilmente prende la scena, spoglia il film di quell'aria ridicola di capolavoro assoluto così come Reynolds tutte le volte che le appunta un vestito roboante in realtà sogna di spogliarla, lei nuda e libera, unica immagine autentica, mentre tutto intorno i vestiti o immagini-orpello finalmente bruciano fino a ridursi in cenere. Curioso meta-film perversamente autobiografico, conscio dell’impotenza a far cinema del regista stesso, che solo quando accetta una volta per tutte il suo fondamento sado-masochistico (non solo nel bel finale), può finalmente liberarsi e librare certi amori cinematografici che infine non si riducono agli usuali vuoti sfoggi. L’occhio di Scorsese del dimenticato lampo che fu Made in Milan (su Armani...), la girandola indimenticabile (qui intelligentemente declinata come atto mancato) dell’attacco di Max Ophüls Le plaisir. E poi ovviamente (dichiarati) Hitchcock Rebecca (su Vertigo qualche dubbio), certi gioiosi lustri anni cinquanta (Negulesco How to Merry a Millionaire). Poi chissà se certo lato gotico non si riferisca alla lontana a George Cukor Gaslight. Non pedisseque citazioni, ma vive ispirazioni. Come se Paul Thomas Anderson avesse finalmente trovato un po’ d’aria per sciogliersi dal giuramento della grande opera e avesse deciso di fare semplicemente un film (non a caso neppure scritto in solitudine, ma lavorato punto a punto con Daniel Day Lewis), intaccando dall’interno la sua stessa aura di presunta eleganza.

 

 

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Arturo Lima

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La voce della luce

Vanna Carlucci

Origem do mundo è una traversata, una ricerca nell’abisso che soffia sotto forma di palpito. Il vento, questo dio che spira da ogni luogo, s’infiltra tra le crepe delle rocce, bocche entro cui riformulare un suono, una lingua sconosciuta, un’impronta.

 

Siamo nel deserto brasiliano, luogo senza direzioni, distesa infinita sul cui strato essenziale si trovano i cosiddetti “pietroglifici”, disegni preistorici incisi sulla roccia. Si tratta di un paesaggio riconoscibile nella sua assenza, il deserto come spazio senza vita ma che si fa carico di una memoria lontana dai giorni: luogo che fa dei suoi miraggi il punto focale dell’immaginario. Batsow è un esploratore, mostra il non detto, rincorre l’aria, il disegno rupestre, ne tenta una possibile decifrazione che si allontana sempre più dal suo originale. Anche l’oralità, tramandata dai vecchi abitanti del luogo, lavora all’impossibile, all’imprendibilità della prima parola, a un mito che ritorna nell’immagine incisa: l’uomo paleolitico non ha solo visto l’animale ma lo ha raffigurato sotto forma di mostro, minacciosa bestia divina. Il segno allora, non è solo traccia ma atto, l’iscrizione non è solo un’incisione ma anche e soprattutto uccisione, sacrificio di una forma che lo sguardo cattura sulla pietra e che è rappresentazione di un’immagine divina solamente percepita e quindi immaginata.

 

L’origine è quel «grido della voce che sembrava la voce della luce» dice Pimandro, visibile solo nella distanza: è per questo che Origem do mundo scava nel tempo, allontana il mondo dal suo progressivo deterioramento per recuperane una forma primigenia, una memoria mitica, mai tradotta definitivamente e proprio per questo ancora intatta e lontana. Non è un caso - se di luce si tratta - che questo film faccia parte del progetto curato da Bressane il cui titolo rimanda non solo alla lingua portoghese ma anche e soprattutto al linguaggio del “cinema [che] è la musica della luce”, a questa riformulazione continua, tentativo perpetuo di traduzione e di salto oltre il confine della cosa vista per lasciare che si imprima la traccia sottile di un’immagine (o forma) luminosa venuta da lontano, il vento di un dio remoto: Tela Brilhadora da «brilhador, brilhadora» (sostantivo) = che brilla.

 

Così come in Batsow anche nel film di Rodrigo Lima, O espelho (che fa parte anche quest’ultimo di Tela Brilhadora), si tratta di scavare in profondità, attraversare la materia fluida di una superficie riflettente e di passare dall’altra parte. Anche Lima lavora sull’insufficienza del linguaggio di fronte alla cosa divina: non a caso la prima immagine è la punta rocciosa di una montagna in Rio de Janeiro chiamata Dito di Dio a cui segue l’indice di un uomo puntato in su.

 

È la natura nelle vesti di una donna ad annunciare poi la sua presenza con un grido che smuove il presente e risveglia l’attenzione di un pittore intento ad osservare la propria immagine riflessa in un specchio, tela vertiginosa attraverso la quale poter catturare l’altro da sé, un minuscolo riflesso luminoso. È un fantasma la donna che appare dalle acque del lago, è uno spirito che dà voce alla natura panica del mondo: ruggisce, urla si muove convulsamente come in preda a un dio incarnato in lei, immagine sfocata, ombra vagante per il bosco che trascina l’uomo in profondità, al di là del lago, specchio d’acqua, fino a scomparire. Lo specchio, questo vetro che ha struttura molecolare liquida, è un fluido: una volta passati si transita nel tempo, in questo continuo muoversi e approssimarsi a un’immagine capovolta dove il dentro ora risulta essere proiettato in superficie. Meccanismo alchemico, proiezione cinematografica, secondo Jean-Luc Nancy «l’immagine fa uscire la cosa dalla sua semplice presenza per metterla in presenza, in praesentia, in essere-davanti-a-sé, rivolta verso il fuori»; di conseguenza, «ogni immagine è una mostranza […] è dell’ordine del mostro», minaccia divina che si palesa in avanti: è questo abisso profondo che, cieco nel suo brancolare nel vuoto, ad un certo punto torna in superficie per mettersi in luce, immagine smagliata dalle frange delle acque, dal rimbalzo infinto degli specchi.

 

 

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