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NAKED LUNCH (1) - Crimes of the Future (David Cronenberg)

Saturday, 11 March 2023 00:23

Lorenzo Esposito

 

L’idea che in un corpo ci siano altri corpi, è l’idea stessa del cinema. La loro scomposizione e ricomposizione genetica in corpi ulteriori (detti, da almeno due se non tre altri grandi cineasti, ultracorpi) passa per dei rapporti di sangue che tuttavia verificano l’evoluzione e la mutazione direttamente su ciò che una mente può conservare o rifiutare del rapporto di sangue in questione: questa è l’idea di Cronenberg (cosa che ne fa di fatto e da sempre il regista più cinematografico, se l’immagine è anche un cervello). Al ripetersi per la seconda volta nella filmografia del titolo Crimes of the Future per Cronenberg le due ipotesi di mutazione - quella che divora e quella che prolifera - sono definitivamente consumed, cioè in uno strano e imprevisto equilibrio fra corporeità massima e inesistenza.

CRONENBERG

La città - già da tempo - ne è diventata teatro prediletto. Tangeri di Naked Lunch ne è per forza l’annuncio, e così la geografia mentale che deflagra su se stessa di eXistenZ. Poi sono venute Los Angeles (Maps To the Stars) e, semplicemente, Cosmopolis. Punto estremo ora Atene (e dintorni), la cui architettura notturna che mescola rovine millenarie e macerie contemporanee diventa il luogo di una performance permanente: i corpi producono nuovi organi spontanei all’interno e non sentono più dolore in superficie. Cosa diventano i parti di Brood e tutte le fuoriuscite di Rabid Scanners Videodrome lo mostra l’inizio di Crimes of the Future in sequenze quasi inedite per Cronenberg (forse solo Spider si avvicina) girate sotto una luce accecante, con una colonna sonora anomala e di qualche eco hitchcockiana: la madre uccide il proprio figlio colpevole di essere nato con un ‘nuovo’ apparato digerente in grado di mangiare plastica e qualunque corpo sintetico (per la precisione il ragazzo mangia e digerisce un cestino di plastica). Cronenberg però interrompe subito la musica.

Il futuro, se ne esiste uno, ha a che fare col vuoto. Quale ambiente incarna al meglio questo vuoto se non il cosiddetto mondo dell’arte? Ironicamente il lavoro di décor che fa di Atene una sorta di decrepito incunabolo sperduto nel buio (nel suo stesso buio), sarebbe già abbastanza dal punto di vista artistico (soprattutto per un regista che, essendo un grande regista, non ha mai avuto alcun dubbio che il cinema sia l’esatto contrario dell’arte; e certo è ben conscio delle polemiche seguite all’edizione doppia, fra Kassel e Atene, di Documenta).

 

L’arte, chiaramente il più esatto dei crimini del futuro, passa per Saul Tenser (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux), una coppia di artisti performativi che usa la crescita spontanea di organi nel corpo di Saul come materia prima dei loro spettacoli: Caprice apre in due Saul e li rimuove sotto gli occhi di un pubblico estasiato. Il governo, anzi una sotto-struttura della struttura riconducibile a un qualche governo, prende atto e cataloga i nuovi artisti organici, pregando Saul di associarsi. I due responsabili di questo paradossale Registro Nazionale degli Organi, Wippet (Don McKellar), un kafkiano topo da scartoffie giustamente preoccupato da un’evoluzione fuori controllo e dalla sua ansimante assistente Timlin (Kristen Stewart), pendono dalle labbra di Saul, arrancano dietro una realtà che possono al massimo rincorrere e la loro quota di arretratezza analogica si innalza fino al bacio all’antica con lingua tentato da Timlin cui Viggo risponde con un misto di sorpresa e imbarazzo (orrore? L’orrore, l’horror finanche, può essere anche solo uno sguardo gettato di sfuggita sull’altro, questo Cronenberg lo ha sempre saputo).

Ma Saul è già un agente sotto copertura di una polizia beffardamente incuriosita dalla cosiddetta nuova arte. Puro Burroughs: ‘niente è vero tutto è possibile’ resta l’intuizione definitva che giunge fino a noi scavalcandoci a passi fluidissimi. La popolazione, a metà fra isteria e coscienza di una realtà per sempre mutata, crede di nuotare leggera e veloce in un mare di plastica. L’idea che il corpo sia sempre lo stesso perché si muove nel quotidiano è la più grande illusione. Il corpo giorno dopo giorno non è mai lo stesso corpo. Ecco perché la questione dell’identità rimane al centro del discorso di Cronenberg e forse si adombra la provocatoria possibilità che per una volta le banche dati governative potrebbero anche risultare utili a recuperare identità perdute. Ciò che invece prosegue a illudersi è l’arte che, ridotta tutta a arte performativa, esattamente come i corpi non è più in grado di sentire dolore: uno spettacolo esangue e, quanto più strabiliante, tanto più irreale (a un certo punto Saul va a una serata dove un uomo col corpo ricoperto di orecchie e gli occhi e le orecchie serrati danza al ritmo dello slogan “È tempo di ascoltare”: la satira è talmente esplicita, che non si può non pensare a uno sberleffo: Cronenberg è interessato a ben altro).

Macchina morbida, il corpo. E quando apri la macchina - argomentava Cronenberg ai tempi di Dead Ringers - la cosa interessante è che vedi la mente dell’essere umano che l’ha progettata. Così in Crimes of the Future nelle varie performances dolorose senza dolore l’angoscia e lo scandalo non sono per gli organi interni nuovi su cui è richiesto dalle autorità un tatuaggio di riconoscimento, ma perché si vede scoperchiata la mente sconvolta degli umani che hanno prodotto quel corpo in cui non ricordano quando si sono abituati a vivere o in cui si stanno naturalmente evolvendo.

CRONENBERGIl tutto avviene in una sorta di mondo cavo che ospita un’umanità disancorata. Cronenberg intuisce come quello che un tempo interessava anche lui riguardo alla realtà mediata, sostituita da un’altra realtà mediatica, si è evoluto in una socialità apparente destinata a non lasciare nulla se non una congerie senza fine di sfoghi (artistici) solitari. Eppure gli appigli sociologici (per quanto rovesciati sempre politicamente: dal biocontrollo al quotidiano ingerimento di plastica di cui siamo oggi tutti a conoscenza) in Cronenberg non sono che la minima parte del film e in Crimes of the Future semplicemente non sono il film. Rispetto al tipo di tensione contenutista che guida oggi la maggior parte dei film, questa è probabilmente l’opera più fuori canone degli ultimi anni. Anche il titolo è ironico, visto che il futuro non esiste più del presente con cui per analogia cerchiamo di comprendere il film. La mutazione? L’assuefazione alle immagini dolorose? Ma sono qui, non altrove. Ecco perché questi sono crimini del futuro, non dal futuro, non riguardano cioè una nostra evoluzione a venire ma la nostra essenza così com’è ora.

Non solo. La curvatura temporale in gioco, fra profezia e ritorno, ha un che di paranoicamente dickiano (ricordiamo come a un certo punto Cronenberg accarezzò l’idea di dirigere Total Recall, poi diventato il capolavoro di Verhoeven). Dal primo piano finale di Crimes of the Future 1970 al primo piano finale di Crimes of the Future 2022. Dalla lacrima sul volto di Ronald Mlodzik, pronto a sparire nel bambino e a reincarnarsi nella donna, alla lacrima sul volto in estasi di Viggo Mortensen (quasi nella posizione di un’icona - se non sbaglio Cronenberg già definiva Mlodzik un gay dalla sensibilità medioevale) che finalmente, ingerendo una nuova barretta sintetica, fa coincidere l’evoluzione dei propri organi interni con un’idea di evoluzione creatrice della specie umana che, incapace di provare dolore, accoglie infine la morte come passaggio necessario verso lo sconosciuto (entrambi i finali non lontani dall’essere duale del finale di Scanners, quando il flusso di sangue altrui smette di scorrere separatamente dal nostro). Per tutto il film Saul dorme e mangia in veri e proprio bozzoli organici, un letto (Orchibed) dalle strane fattezze vaginali e una sedia che dovrebbe correggere il malfunzionamento del corpo a causa dei nuovi organi. In fondo è anche un artista che sta invecchiando e quella lacrima insieme all’estasi si fa leggere come momento di pura tristezza. Cronenberg ha parlato di Dreyer, di come ha a lungo discusso con Viggo Mortensen del volto della Falconetti sul rogo. Non c’è dubbio, ed è veramente incredibile come tutti i grandi cineasti, a un certo momento della loro vita e della loro filmografia, tornino a Dreyer. Raggiungono il traghetto. In Cronenberg, se pensiamo anche al recente corto-performance (non a caso) girato dalla figlia sulla morte stessa del padre, col volto di Cronenberg sovrapposto al suo volto morto, questo ritorno significa anche sovrapposizione ulteriore col personaggio di Saul su un rogo doppio: è come se infine stesse donando a noi spettatori alcuni suoi organi.

Per questo la cosa davvero filmica e grandiosa è il tono meravigliosamente antidrammatico del film. Lunghe cripto-conversazioni sottovoce, un’atmosfera cospiratoria generale che conduce all’ultimo spettacolo dei coniugi mutanti, l’autopsia sul corpo del ragazzo digeritore di plastica morto all’inizio. Ma tutto avviene secondo la deriva sonnolenta e metafisica che già avevamo visto nell’opaca conversazione finale di Cosmopolis, la camera stessa sembra quasi trattenuta su un piano temporale differente dal film (come solo Cronenberg sa fare: la fa letteralmente sparire), dando una sensazione di ambiente svuotato, neutralizzato in modo tale però da aprire progressivamente e impercettibilmente un varco che permetta allo spettatore di ripensarlo a posteriori. In Cronenberg è la macchina-film, non i suoi contenuti, a definire limiti e fantasie di un mondo (non importa quale). E se questo diventa anche lo specchio di una nostra disabitudine a pensare e a guardare (lasciamo stare il vedere, sarebbe troppo), è per questa strada che si va ben oltre il semplice film.

 

 

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