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INTERZONE - L'esprit de l'escalier (Raúl Ruiz)

Sunday, 22 March 2015 18:44

Bruno Roberti 

La scala e lo spettro, variazioni sul tema per Raúl Ruiz (prima parte)

 

Credo che tutti siamo visitati dallo spirito. (Jorge Luis Borges) 

Lo spettro si dice anche della rifrazione, di una parvenza, e certo apparizione, di un corpo che assume la luce da qualche altra parte eppure ne assorbe la luminosità, appare come un corpo luminoso, o meglio come una ruota di possibilità di apparizioni luminose, di densità di luce o di sua evanescenza, di colorazione o di sbiancamento. In ogni caso questa luce, nel suo ‘spettro’ di possibilità, ci giunge da un altro luogo e da un altro tempo e ci arriva, per così dire in ritardo, o ancora, apparendo come a rovescio, è una risposta che ci giunge prima della domanda, oppure è una articolazione di frase che ci arriva prima che noi si possa articolare una frase in dialogicità. Per cui il movimento del linguaggio e la sua ostensione, il suo venire in luce, scompagina la consequenzialità e risponde a un’altra logica del sensibile.

L’esprit des Escalier viene scritto da Raúl Ruiz ‘sul letto di morte’ (quello stesso in cui si genera l’esatto delirio e si intrigano i sentieri arcani de Mistérios de Lisboa, quello stesso in cui Proust vedeva il proprio tempo ritrovato, aspettava trepidante il bacio della madre, agitava il proprio cinema notturno e insomma tornava bambino, rinasceva dalle proprie stesse spoglie, quelle scambiate certo che Ruiz filma e monta, su quello stesso ‘letto/sepolcro vuoto’, nel suo film estremo La noche de enfrente, aprendo così la porta sulla propria notte en face, da cui naturalmente proviene il suo corpo-bambino adunante una teoria di spettri, e il termine teoria ha un triplice senso: una fila, corteo o processione, una paoramica ottica, una riflessione di pensiero). 

L’esprit des Escalier è apparentemente il manoscritto di uno spettro, un diario scritto da una ‘mano morta’, una serie di ‘sedute spiritiche’, o di veillée, di veglie, in cui gli accoliti, adunati intorno al tavolo d’ebano (ben solido come voleva Cocteau), siamo noi, ma ‘per interposta persona’, cioè sotto una serie di maschere che scoprono maschere… noi “gli agathopedisti”? (oltre che lettori-spettatori di un libro-film, le cui pagine sembrano fatte, come è già successo per Ruiz, di specchio o di carta velata simile allo schermo, e sèance, seduta-veglia si dice anche di una proiezione… la sala cinematografica è il luogo dove meglio si dorme, oltre che il set, come voleva Raúl), cioè gli appartenenti a una società segreta che pare esistita a metà XIX secolo, come si postilla puntualmente nei Generique de fin? (che suprema e tenera ironia porre alla fine del libro, e della propria vita - una tra le molte altre - i ‘titoli di coda’ che ri-velano come il gioco sia quello, ‘gioco facile’, e cioè ‘inventer une vie…toute une vie…une nouvelle vie’, ma anche il ‘gioco di prestigio’, la cui perizia ‘appare’ disinvolta, ma in realtà ‘si involve/evolve’ in vari ‘giri di mano’ sempre più com-plicati). Società ‘pantecnica’ ma soprattutto palingenetica, che prepara ‘in vita/in vitro’ un’alrra vita, alchemicamente si costruisce un altro corpo, si fa Fenice, tracimante nel fuoco e dalle sue ceneri reviviscente, “fondata a Bruxelles il 24 Settembre 1846”, cui appartennero Félicien Rops, Michel de Ghelderode e lo stesso Alessandro Dumas (quel Dumas che di false identità la sapeva lunga), dedita all’“établissement de faux” e che sembra prefigurare il Collegio Patafisico inaugurato da Jarry. Società, si dice nello scorrere i titoli di coda del libro, “cui si è già ispirato Raúl Ruiz per un suo film Agathopedia, realizzato nel 2008 con gli studenti dell’Università della Calabria”, ed è a questo punto che mi sono sentito veramente ‘implicato’, ‘inscritto’ nel libro, io come chacun lecteure, hypocrite et mon semblant essendo stato attore-spettatore-testimone di quel film, che oggi mi appare come un preludio.

L'ESPRIT DE L'ESCALIER (RAÚL RUIZ)Il libro è apparso nel 2012  da Fayard  nella collana, non a caso, Alter Ego, dedicata ad ‘autobiographie fictive’ “tout aussi exotique qu’intime”, e tale è il senso dell’exote che intimamente ci appartiene o ci è im-proprio (straniero a noi stessi nel nostro più profondo dove io, che è molti, ovviamente trova un centro nell’estraneità di un sé che, a seguito dell’ac-cadere, si sveglia e induce, indirizza, guida i sogni lucidi), nel nome di una curieux Phoenix rinata sulle ceneri dell’esprit europeo, quella di un Hermann Hesse che, nel suo ‘jeu’ di perline di vetro, immaginava una Castalia, Recta Provincia, luogo interamente votato allo studio. Si sa che il modo migliore di studiare è quando si dorme, per potersi risvegliare, mettendo il libro (generatore di immagini) sotto il cuscino. Forse il modo migliore di leggere(vedere) questo libro di Ruiz è questo: è qui che il libro appare e scompare e che le veglie si fanno ‘sonno’, i sonni si ris-vegliano. Del resto nel 1986 Raoul gira appunto delle ‘disapparenze’. Mèmoire des/apparence, cioè La vida es sueno di Calderon, che mette in scena ad Avignone, tradotto da Jean-Louis Schefer, dove si interpola un professore che deve imparare a memoria i nomi di quindici dozzine di membri della resistenza contro la commissione. Ricordava Ruiz: “Lo spettacolo sacro è una vera e propria messa solenne, lo spettacolo profano è un insieme di vecchi film anni Cinquanta.[…] un film di Flash Gordon, un film storico, un peplum, attraverso cui si può seguire la vicenda della pièce con l’impressione però di vedere una moltitudine di film”. Del resto un quarto di secolo più tardi, Raúl dice che, per scrivere l’invenzione di una vita non ha che l’imbarazzo della scelta, tra varie vite vissute (giocando a dadi una sola morte ogni volta), avrebbe potuto raccontare la sua vita da imperatore della Cina, da legionario romano, da bandito catalano… Ma poi, ‘con un leggero decalage’, racconta la sua vita trasmigrando in vari corpi-personaggi, anzitutto Flanders (che ha il nome di un luogo, le Fiandre) e, spostando leggermente la macchina, di Gerard De Nerval, poeta e scrittore folle e lucido, esoterista, ‘figlio del fuoco’ segnato in fronte dal marchio di Caino e trovato infilzato sul punteruolo di un cancellata in una strada di Parigi.

Nei ‘dialoghi immaginari’ tra Ruiz e Schefer pubblicati su Ca cinéma nel 1980, si cita questa frase di Jean Paul. « Soudain, le dormeur, le cadavre de la nuit, se ranima, car le reve vient créa autour de lui un ciel et une terre dont il lui fit présent, des images legere et hardies firent passer sous ses yeux l’apparence animèe de leur vie, et il était au milieu d’elles, …la plus belle jeunesse rajeunissait encore, la terre avait perdu sa pesanteur ». Poco prima Ruiz aveva detto, in una sequenza dialogica con un altro se stesso, che di volta in volta i sogni giungono già montati come le sequenze di un film finito. Che cosa può produrre questa protesi nella nostra memoria? E, aggiunge, che in effetti si tratta di visioni di un amnesiaco, una piega-trappola da cui possono liberarsi effetti di allontanamento e avvicinamento, e tale oblio permette di rever (voir), ‘re-voir’, in continuità: questa continuità provvisoria costituisce il cinema avant le cinéma, e se non fosse mai esistito, il cinema, bisognerebbe inventarlo, come la vita, ogni vita. In tal modo bisognerebbe inventare una tecnica grazie alla quale si possono sovrapporre dei ricordi personali a dei ricordi impersonali. 

Conservo un ricordo, nella mia im-personalità, quello di un uomo fermo davanti a una porta, ritto su un pianerottolo, che guarda le scale che ho appena salito e poi mi fissa con aria interrogativa e sperduta. Pensai fosse uno spettro, comunque un uomo che non si rendeva conto di essere morto, comunque un uomo sulla soglia tra due mondi. Ci ritornai su quelle scale, l’uomo era sempre là, anche se forse qualche volta era sparito e poi riapparso.

Raoul Ruiz, très drôle, à une terrasse de café, me désignant avec certitude, parmi les passants, ceux qui étaient des fantômes (dont certains, assurait-il, n’en étaient pas moins « gentils »)… Au fond, tout le cinéma, pour lui, était une affaire de revenants, et chaque personnage, par définition, avait quelque chose de spectral. (Guy Scarpetta, Requiem pour Raoul Ruiz, Positif n. 611, janvier 2012) 

Lo sguardo di Raúl che adocchia dalla terrazza i fantasmi, riconoscendoli tra la folla, mi fa pensare che lo stato sogliare in cui si sovrappongono due visioni, una leggermente spostata rispetto all’altra, gli appartenesse da sempre (come un cinema profondo e incorporato in lui, cinema filogenetico che precede le esistenze, così come le segue), da quando bambino viveva con il padre capitano di marina sull’isolotto di pirati di fronte alle coste di quel ‘pais phantome’ che è il Cile, e avesse sviluppato una tale seconda vista guardando intensamente muoversi le onde del mare, da cui emergevano continuamente volti. Il suo modo di fare cinema, di fabbricarlo, possiede due sapienti tecniche a due diverse velocità (com’era il timbro della sua voce): l’una grave che immobilizza, che tiene fermo, che ipnotizza in un torpore il moto (che come le onde del mare si muove stando fermo, assopito), l’altra leggera che disloca, che fa muovere le ombre, le fa scivolare. Qualcosa sta fermo e contemporaneamente qualcosa si muove, nelle sue immagini, come si vede nei gran balli del Tempo Ritrovato, dove a scivolare sono le quinte, i pannelli, gli scenari, montati su carrelli, mentre la camera resta fissa. Ecco che appare un gioco vertiginoso di dimensioni, di scale

Esprit de l'escalier, è l'espressione francese, che dalla fine dell’Ottocento è invalsa anche in Italia, in cui si identifica una posizione di bilico, di soglia, in cui non si sa bene ciò che precede e ciò che segue… La risposta a una frase, a uno stimolo, arriva in ritardo, ma (come per i falsi ricordi e i déja vu) apre un tempo paradossale, dove la replica, la ripetizione assume qualcosa di aurorale, di epifanico, e quindi il ritardo diventa precedenza, e le scale, dove ci si sospende, che si è cominciato a scendere, si rovesciano in un moto ‘a salire’, come nei quadri di Escher. È allora che, come diceva Diderot, 'si perde la testa e non la si ritrova che nel fondo delle scale’. Tale inversione è vertiginosamente continua nel libro e mette in questione la nostra posizione, frammista a quella dei personaggi, dislocati a loro volta nel tempo: dove ci ritroviamo ? Da quale parte della vita? Quale lato dello schermo? Su quale superficie della pagina? In quale direzione della scala? Le sedute spiritistiche, la fotografia spiritica, hanno nelle sequenze del libro questa funzione di punto di ri/presa incommensurabile, in cui, come su un nastro di Moebius, l’andamento del libro e delle sue visioni, delle sue aperture e chiusure simultanee (come nella soglia, nella porta duchampiana, che si apre chiudendosi e si chiude aprendosi) si inverte e si converte spostandoci, dislocandoci, per cui la lettura di questo ‘Livre Magique’ co-incide con una ripresa, e siamo noi ad essere ripresi, come se, da un luogo incommensurabile, da una dimensione sogliare, Raúl ci stesse riprendendo. 

 In una pièce di Ruiz, variazione su Don Juan, scritta nel 1988, il Convitato racconta al Viaggiatore, lo Spettro al Vivente, quanto segue: “Puis elle voulut mourir, mais une folle envie de renaitre l’immobilisa dans un torbillon de gestes en manque d’action . A ce moment, elle vit l’enfant, parce qu’il ne s’agissait de rien d’autre que d’un enfant. C’est vrai, chaque geste lui venait de soi comme une moule en marbre. Chaque frémissement s’eternisait en lui-meme. Il n’est pas sur que Salomé ait pu voir tot ca”.

   Che cosa siamo sicuri di aver letto, e di aver visto? 

   A suivre…

 

 

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