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FESTIVAL/Berlinale 2016 - A Lullaby to the Sorrowful Mystery (Lav Diaz)

Monday, 22 February 2016 10:50

Lorenzo Esposito

Prima della rivoluzione

Notturno filippino. Una casa dove le ombre stagliano con nettezza le porzioni di luce offerte dalla notte. Un uomo nel fondo ombroso di una stanza, seduto, canta con la sua chitarra. La ballata è misterico impasto d’amori perduti e gesta rivoluzionarie, ed è un filo che resterà teso, attraverso poemi e canti declamati e sospirati nella foresta, lungo tutto il film. Come un velluto la camera si muove scortando l’uomo più vicino, nell’anticamera, dove infine posa di profilo, e dove l’avvicinarsi sembra al contrario un affondo ulteriore nel buio.

Hele sa Hiwagang Hapis (A Lullaby to the Sorrowful Mystery)Quando tutto ha inizio, in Hele sa Hiwagang Hapis (A Lullaby to the Sorrowful Mystery), tutto si è già tragicamente compiuto, è come se con un semplice gioco di stanze, la linea dell’occhio lentamente vibrata e sottratta in modo da diffonderne idealmente i fili (la ragnatela di Fritz Lang), si ponessero i caratteri tipici di ogni rivoluzione, l’essere postumo d’ogni evento, illusione (e disillusione) ottica, salto nel vuoto, mistero del sé in rapporto alla collettività, morte, sacrificio, deambulazione, sepoltura, mito. Quando tutto ha inizio, nel 1897, José Rizal è morto. Il suo nome aleggia nel film e l’unica cosa che non viene citata è il suo romanzo del 1891, El filibusterismo, che Lav Diaz usa come base narrativa (anzi ne è, anche se solo in parte, l’adattamento) e per il quale Rizal fu condannato a morte dall’occupante spagnolo (il romanzo è per di più il seguito del precedente Noli me tangere, il cui titolo basterebbe a definire tutta la ballata di Lav). Sono morti anche altri eroi della ribellione anti-coloniale per l’indipendenza delle Filippine (Andrés Bonifacio su tutti), e le loro donne, amanti e traditrici (Cesaria Belarmino, il cavallo di Troia, concubina del generale spagnolo, in cerca di redenzione dopo aver contribuito al massacro del suo stesso popolo), intraprendono un lungo viaggio nella giungla filippina per rinvenirne i corpi. È già stata sedata nel sangue la rivolta di Katipunan, società segreta fondata da Bonifacio e altri nel 1892 dopo l’esilio imposto a Rizal per i suoi scritti. Sono infine dispersi come tante cellule impazzite amici poeti e rivoluzionari di un tempo: il rabbioso Basilio, il fedele Isagani e soprattutto il tragico Simoun, che finge di appoggiare gli spagnoli e li spinge a compiere delle stragi, sperando così di suscitare la reazione popolare. Simoun verrà ferito da Basilio e fuggirà nelle foreste scortato da Isagani fino a darsi la morte dopo una lunga confessione. Tutti questi gruppi dispersi sono altrettante direttrici di un viaggio senza fine nel cuore di una terra selvaggia e grondante terrore.

Hele sa Hiwagang Hapis (A Lullaby to the Sorrowful Mystery)Tutto dunque è avvenuto. Tutto è postumo. Tutto è a regola di fantasma, un limbo infuocato che coinvolge il drammatico tentativo dell’occhio di dar corpo allo spaesamento collettivo, di trattenere le immagini sparite e in via di sparizione, dare un’immagine a ciò che dell’immagine sfugge (esemplare l’episodio della prima proiezione Lumière nelle Filippine, con due tre filmini lumierizzati da Lav Diaz stesso, figure oblunghe erte su spazi di luce contrastata che caracollano come a fuoriuscire dallo schermo, versione filippina del treno in stazione, con stesso accecamento e fuga finale del pubblico). Quel che resta è il circolo misterioso di una figura mitologica che si esplica attraverso tre personalità (seduttiva, androgina, anziana) e che è a ben vedere la camera stessa di Lav Diaz, il modo in cui dipana i fili della storia per ripercussioni e echi e battiti trasversali, colpi di vento burrasche e discese sotterranee, tutto uno stato acquitrinoso dello sguardo che non offre soluzione se non la ricostruzione a vista del proprio accecamento, così come durante la rivoluzione è difficile fermarsi a riposizionare i troppi pezzi del puzzle (ancora e sempre Straub – via Malraux: “è difficile per un popolo vedere il suo proprio acquario”). Si gira in tondo, perversamente guidati e derisi dall’entità col volto di caprone, che avanza a tutta inquadratura nel finale, sorgendo cupo fra le fonde, costringendo a un battito d’occhi incredulo, di nuovo effetto Lumière come se fosse la prima volta. Tutto il film è costellato da strane brevi sparizioni (la scena delle evoluzioni della setta anti-colonialista nella foresta) che mimano una sorta di perdita d’asse della vista: ogni cosa è lì davanti, ma al tempo stesso impercettibilmente mancante, ossessivamente deviata verso segrete sponde laterali (è il caso inoltre di notare come José Rizal fosse in origine un oftalmologo, chirurgo delle malattie dell’occhio, e che magari la rivoluzione, fra utopia e paranoia, può nascere anche solo da un minimo disturbo oculare…)

Tornando al principio, molti vedono (chissà, con malcelato desiderio di etichettarlo come meno bello), nella prima sequenza raccontata sopra e nelle quattro ore successive un Lav Diaz diverso, a me sembra che, come spiegato dal regista stesso, l’azione parallela del chiaroscuro di ispirazione espressionista (poi riverberato a lungo nelle scene cittadine inondate di ponti terrazze inseguimenti e ombre coloniali) e del movimento a ritroso a spalancare la profondità di campo (ambiguo come ogni figura del passato, cioè ambiguamente insistente sul presente - si veda la scelta genialmente confusionaria dei costumi, che non solo retrocedono la modernità al 1897, ma sembrano voler dire che la guerra per le Filippine non è mai finita, dunque riproiettandosi verso il futuro) è un aspetto solo parzialmente inedito nel cinema di Lav Diaz. Non solo perché va a costituire un blocco unico con From What Is Before, la cui indicazione temporale nel titolo ha lo stesso tenore di perenne ridisposizione spaziale dei fatti della storia; ma perché chiama in causa la questione dell’identità, anch’essa continuamente differita o reincanalata o auto-colonizzata, e che da sempre coinvolge lo statuto stesso dell’immagine in Lav Diaz. L’intermittenza del pensiero e della storia in Diaz vanno di pari passo con la loro geologia profonda, affrontando il nesso instabile di un’immenso lacerto di memoria perduta (la storia della Filippine come storia universale), di cui l’immagine è al tempo stesso vuoto ulteriore e repentina messa a fuoco. Alla fine ci si ritrova after life, in piedi su una zattera portata via dalle acque, e si ricomincia a raccontare.

 

 

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