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Surbiles (Giovanni Columbu)

Monday, 27 November 2017 10:17

Luigi Abiusi

Macerie d'immagine

Andava a trovare i suoi morti
rinchiusi in armadi sconnessi

...

A. Gatto, Infanzia, in Isole)

 

A prescindere dalla narrazione e da quelle che sono le inferenze antropiche di Surbiles - ciò che si vede e si sente nelle ambagi del film (negli armadi, agli angoli delle camere, proprio nelle intercapedini della struttura cinematografica) a proposito di sincretismi, superstizioni, o del magico superstite (guardando anche un po’ a De Martino) -, con tutto il corollario esistenziale poi connesso a queste figure fragili e dolenti, per quanto orride, erranti di vampire (quindi una gamma di tonalità e registri che prevede anche l’ironico, se non proprio il comico inerente al metabolismo dei vecchi parlanti, semoventi); è nella forma, com’è evidente, che Columbu concentra tutto il suo potenziale dialettico, sfruttando la scarnezza, la povertà della ripresa amatoriale, per fini, come dire, gnoseologici, cioè indagando questioni come l’essenza dell’immagine, la sua presunta autenticità e i margini di manipolazione iconica entro un programma profondante, sprofondante di racconto: perché proprio mentre cerca di addentrarsi negli spazi di profonda, stratificata significazione, questa struttura sembra smottare, ridursi in macerie d’immagine, cumuli di ombre digitali. Cioè, quanto aggiunge questa modalità di ripresa al fondamento filosofico (teorico: ma di una teoria del mondo piuttosto che solo del cinema) necessaria al racconto, alla possibilità di dire e di mostrare anche oltre la finitezza endemica di parole e figure, magari attraverso condizioni particolari di luce, di crepuscolo dell’atmosfera cinematografica? Come se queste, nella fredda povertà, precarietà della ripresa, acquistassero una maggiore pregnanza estetica, gnoseologica appunto: la capacità di dire, mostrare, fare intravedere la bassa, la basica sostanza costitutiva di tutte le cose e adiacente al nulla. Il che sembra confermato dalla confluenza (per certi aspetti) con alcuni esperimenti recenti, partendo da quella sorta di archetipo che può essere Mysterious object at noon di Weerasethakul: ad esempio El futuro di Luis Lopez Carrasco, in cui è proprio la modalità del mostrare, la ripresa in 4:3 e nella definizione di una VHS, ad aprire squarci, passaggi temporali non tanto dentro la Storia (e nella politica), quanto nell’immaginario anche oltre gli anni Ottanta; o I tempi felici verranno presto di Alessandro Comodin, tutto teso nell’alternanza e indistinzione (come in Weerasethakul) tra documentario e finzione, e comunque pervaso a tratti dalla stessa luce crepuscolare, mortifera, dalla stessa scarnezza (problematica, teoretica) del digitale domestico di Surbiles.

È un essenziale, rudimentale posarsi, addentrarsi dello sguardo nella realtà spoglia e ancestrale, folklorica di certa Sardegna: una forma, una maniera che mima alla sua maniera - per luci smorte e sagome vaporanti, processioni di metaplasmi in filigrana sulla campitura; costruzione estatica del piano (per lo più cieli e vegetazione) e apparente approssimazione, sommarietà dell’uomo con la videocamera; quadri chiusi, claustrofobici ed ellissi su campi lunghi, su riti apotropaici legati alla terra, che scongiurino l’ossesso, proteggano il sonno dei neonati - tutta la congerie di stanze disadorne dove brulica dal crepitio degli arti l’insetto suggente; intonaci all’insegna di ceri di plastica rossa e piccoli (in)significanti ex-voto; il senso di vecchi canterani pieni di chincaglie, di armadi di legno tarlato con dentro coperte di lana, odori di legno vecchio, buio, pesto; cucine e sale da pranzo d’accatto, con televisori a tubo catodico sui comò, o d’altra parte certa ruralità fatta di pavimenti di pietra grezza, camini di sussistenza, porte e finestre sbrecciate da dove premono queste lemuri con voce rauca, e le campane a morto. Un senso di morte, aleggiante nel gesto del riprendere: quella illuminazione lampante che viene dalla decomposizione, la costellazione delle cose divenute sintesi, apocatastasi vertiginosa nella forma (cadente), che cova nelle luci ingiallite, appannate ai vetri, nelle sere d’inverno rimestate da due o tre lampioni, i silenzi nei vicoli e nelle stanze dove i bambini stanno zitti, fermi per non essere presi, ad ascoltare gli scricchiolii del fuoco e fanno finta di non sentire chi o cosa fuori continua a chiedere di entrare.

 

 

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