"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

LE TEMPS RETROUVÉ (3) - Non c'è nessuna Dark Side (atto uno 2007-2019) (Erik Negro)

Monday, 03 February 2020 20:58

Andrea Pastor

Lettera d’amore dedicata a tutti quelli che il cinema amano alla follia

..no, non è facile scrivere di un film cantato e parlato, vissuto fino all’ultimo istante, della durata di tre ore e mezza circa, un monologo quasi mai interiore, germogliato da più di una decina d’anni di riprese in varie città, in più capitali del cinema, ma anche, in gran parte, in un vero e proprio tinello, lontano da qualsivoglia idea di interno asettico e claustrofobico, tipico di molto cinema italiano, anche d’autore, più o meno chiuso fra quattro mura.. no, non è un compito facile, soprattutto se il film è stato realizzato da un amico, un compagno di visioni, e di scritture, anche se, purtroppo, l’amicizia non è di lunga data e non è certo comparabile a quella che Erik Negro ha stabilito con altri ‘colleghi’, e compagni di visioni, che lui si premura, cortese, di ringraziare nei titoli di coda, fondatori di riviste che si sono fatte abitare (quasi da) subito dalla sua firma, dalla sua scrittura, compagni che probabilmente conoscevano da tempo il suo filmare, ogni tanto, in giro per ‘un mondo a parte’, o dal treno o da una macchina in corsa, o nei boschi, o in riva al mare, o quando, per l’appunto, più semplicemente, ci si siede attorno a un tavolo, per una bevuta fra amici, tanto per far passare il tempo.. no, non è facile, perché non è purtroppo più tempo di nouvelle vagues, perché dalle riviste di cinema, anche quelle più di tendenza, siano esse cartacee o on line, non sorgono più autori destabilizzanti, che trapassano, senza soluzione di continuità, dalla lettura critica di un film alla pagina scritta alla macchina da presa, come per un procedimento automatico, ripensando il cinema inteso come vita al lavoro, illusione di movimento in spazi, magari ristretti ma che si fanno abissali.. no, non è facile e non so nemmeno se sarò in grado, e se voglio, e se sia giusto, iniziare e finire ‘a dovere’ uno scritto su Non c'è nessuna Dark Side (atto uno 2007-2019), perché sono sicuro che lo stesso regista avrebbe la capacità di scriverne, in totale umiltà, ma anche con precisione, e dunque mi limiterò a qualche minima osservazione.. dove e quando inizia veramente il film? Ogni cineasta che mostra se stesso, o l’altro (da) sé, documentandosi e dunque finzionalizzandosi, di solito comincia a cercare nell'archivio familiare l’occhio, magari in super otto, dei familiari che lo hanno filmato da piccolo, nei suoi primi, incerti, movimenti, o nei suoi trepidi, primi, sguardi in macchina, miscelandolo poi con le immagini del se stesso ‘attuale’, in una (auto)celebrazione del divenire, in una retorica discorsiva quasi sempre non esente da narcisismi. Di Erik bambino, al contrario, non sappiamo niente, quello che si e ci offre, come dono, è, molto umilmente, il suo sguardo, una soggettiva ininterrotta che è cominciata nel 2007 ed è proseguita fino ad oggi. No, il passato remoto non esiste, ciò che vediamo è uno stratificarsi (lui stesso ha usato questo verbo, in un’intervista concessa al ‘Manifesto’, dopo l’anteprima pesarese dell’anno scorso), uno snodarsi, continuamente cangiante, sempre in divenire, di una soggettiva quasi totalmente, perennemente mobile, dove i cieli e le terre, gli alberi e le nuvole e il mare, ripresi ‘come stando sempre’ di corsa, dando l’impressione di essere quasi tutte immagini ‘rubate’, si sovrappongono le une alle altre, facendosi eco, l’una all'altra, anche in moto accelerato, mai estatico. Un precipitato di sensi e di senso, scandito e ritmato, con precisione, in tutti i suoi leitmotiv, eterni, ma sempre diversi, ritorni, da dissolvenze incrociate, o da stacchi in nero, dove non ci sono capitoli, paragrafi, didascalie, se non quelle presenti nell'incipit di questa che mi sembra essere un’appassionante, griffithiana, narrazione, dove ad essere narrata è l’erranza di un soggetto che ‘rapidamente’, ma anche concedendosi ogni tanto delle pause, si ricerca in un singolo sguardo, il proprio, finestra che si muove, turbinosa, e famelica, su un mondo fatto di spazi e tempi perennemente cangianti, un occhio vorace ma gentile, come lo è Erik nel quotidiano, un occhio mite ma vulcanico, esplosivo, perennemente alla ricerca del senso della vita, o meglio, del passaggio vorticoso, da una fase all’altra della vita, di una vita forse mai pienamente ‘vissuta’ ma che comunque ha avuto l’ardore, la forza e le energie di guardarla e farsene guardare, fino a condensarsi e raggrumarsi come purissimo, e a tratti barbaro, sguardo, per tanti anni, magari ‘vagabondando’, come noi tutti, per i vari festival, alla ricerca di vite perdute (i grandi film che si celano all’interno dei palinsesti festivalieri, quelli che poi Erik ha sempre tradotto in palpabili, toccanti, trascinanti scritti cinelapsus o, per l’appunto, filmparlati), che faceva sue, lievemente, attraversandole e facendosene penetrare, o andando sui set (di) fuoriorario, a coglierne i sapori, i gesti e le gesta. Ma nelle tre ore e mezza circa di una proiezione instancabile, e che si vorrebbe senza fine, la cinefilia non si avverte mai, e questo è uno degli elementi che rende preziosa questa sinfonia di un ‘nuovo sguardo’, possibile.. certo Erik ha visto e sentito come non mai Godard Sokurov, Herzog, Brackage, Dwoskin, e Bressane e tutto il grande cinema, anche quello non espressamente reinnestato nel film, e certo ha ascoltato e visto i lati oscuri e luminosissimi, incandescenti, dei Pink Floyd, dei Soft Machine, di De Andrè, di Dylan, Guccini, e di tutti quelli che intessono la sua colonna sonora, e non solo.. ma quello che si avverte è una singolarità di sguardo, e di ascolto, mai rivendicate, mai esibite, ma semplicemente dispiegate, lasciate fluire, magari in disordine, nel corso degli anni, nel corso di quattrocento ore girate e poi mirabilmente montate, e missate, e, in alcuni passaggi, come trascolorate, quasi a restituire l’allucinato baluginare della sua esplorazione ai confini del tempo, e della percezione stessa (non l’ho voluto intervistare, né fargli troppe domande, anche soltanto come si fa in una chiacchierata ‘fra amici’, prima di scrivere queste note, perché volevo, voglio, che il film rimanga segreto, e perché poi, in fondo, è l’inespresso, o, perlomeno, il non espresso, o il non impresso, interamente, vuoi per pudore, vuoi per rispetto di un’amicizia, o dei propri sentimenti più inconfessabili, l’elemento centrale del suo lavoro..) Ci sono come due anime che interagiscono, inondandosi, distanziandosi, travalicandosi, a volte, per gran parte della lunghissima durata del film, il suono e l’immagine, che cercano, ‘disperamente’, e quasi malinconicamente, di unirsi, indissolubilmente, forse invano: sul piano visivo siamo quasi per intero travolti da centinaia, e più, di frammenti, a volte appena percettibili, ma tutti estremamente visionari, dove i luoghi, imbevuti di luce, e che dalla luce o dall’oscurità, naturale o artificiale, di fatto solamente schermica, si fanno trapassare, con morbida, vertoviana, secchezza, fino a rendersi quasi subliminali, luoghi che sono come indagati, interrogati, nel loro apparire, rapido o rapidissimo, davanti a una telecamera cineocchio che sembra instancabile, nomade, in perenne movimento, sempre tesa alla ricerca di un altrove, forse di un senso, che solo il montaggio illusoriamente sembra poterle dare.. ma è il delicato, commovente, a tratti (quasi un ‘piano sequenza’), lancinante, sonoro, a mantenersi quasi costante, senza strappi, a rendere unica la visione, a farcela vivere come la singolare odissea in uno spazio tempo senza tempo, non solo di un regista chiamato Erik Negro, ma dell’umano sentire stesso, di un io che non può che farsi parlare dagli altri che gli sono accanto da anni, gli amici ‘della sua stessa zona’, quelli che, come Erik, da un certo punto della loro esistenza in poi, semplicemente parlando fra loro, tra una bevuta e l’altra, tra un assolo di chitarra e un rutto, una cantata, e un monologo, che è sempre anche un dialogo, hanno cominciato a interrogarsi sul senso del loro esistere, a farsi parlare, dall’altro accanto a loro, con una precisione e una lucidità incredibili, quasi assolute, e dal tempo ‘che verrà’, quello di un’età adulta che dovrebbe coincidere con la ‘crescita’, col diventare grandi. Sì, sono molto spesso le voci adolescenziali e senza volto degli amici, delle amiche, dell’amica del cuore di Erik, a parlare del proprio stare al mondo, del proprio consistere e insistere, del proprio viversi come persone che sanno di non sapere mai abbastanza, ad abitare il loro tempo ritrovato, a leggere, facendoli propri, incarnandoli, i testi letterari più amati, è il loro recitarsi, inteso come modo per farsi udire dagli altri, di voci che sembrano provenire da un altro spazio tempo rispetto a quello dell’immagine che li contiene, che li incarna, a risultare ‘vicinissimo’ al turbine di immagini girate e montate da Erik e che, quasi miracolosamente, sembrano appartenersi, pur mantenendo ognuna la propria singolarità, ciascuna a tutte le altre, a farsi un vero e proprio bene comune. Potenza del cinema, e dell’amicizia, capaci di offrire loro una forma, un luogo dove ripararsi, un’altra, vibrante, Immagine. Le voci degli altri, provenienti dalle registrazioni, anche e soprattutto quelle più lontane nel tempo, trovano un’eco nel presente della visione, ma, a più o meno regolare intermittenza, che risulta più flagrante che mai, arriva il dialogo nel tinello tra Erik e la ‘fedele’ compagna di liceo, Barbara Elese, l’amica che sembra più cara, quella a cui poter dedicare più ascolto, più attenzione, quella filmata più a lungo, frammenti di uno sguardo amicale che potrebbe mutarsi, nel proseguio della vita, o in un altro film, un Atto II, in qualcosa d’altro, e che qui si dà, semplicemente, a vedere come scambio, come interrogazione, come ascolto, dandosi a sentire in tempo quasi reale, rompendo il flusso spasmodico delle plurime, vertiginose, immagini in movimento. Erik, al tavolo, accanto a Barbara, è sempre attento a trovare l’angolazione giusta per riprendere l’amica geniale che non sa di esserlo, forse una musa ispiratrice, non solo un’interlocutrice privilegiata, a cui concedere più tempo che agli altri, macchina quasi sempre fissa, morbidamente implacabile, anche se gli anni passano e lei si fa più grande, l’eletta a cui poter donare, nell’implacabile parte finale, la propria telecamera, per farsi da lei filmare e svelare come immagine, come volto, come occhio wide shut, per farla diventare, anche se per pochi divertiti, ma trepidi, ‘mossi’, minuti, quasi una coregista... ma Barbara non si fa mai personaggio, così come nessuno degli amici, di cantate o di bevute, di parole e di sguardi, si fanno mai personaggi davanti alla dolce mdp di Erik, perché tutti sanno, hanno sempre saputo, che il loro amico, anche in sede di montaggio, li guarderà, li ha sempre e solo guardati come persone che pensano, che agiscono, che si vogliono bene, che sanno come parlarsi, senza parlarsi addosso. E che una volta filmati, anche in sede di montaggio, avranno la stessa consistenza, lo stesso peso, degli amici che verranno, quelli ‘importanti’, quelli che sulle Immagini, da decenni, lavorano, gli amici di fuori orario, Enrico, Roberto, Lorenzo e tutti gli altri. Quelli ai quali Eric, col suo film, dedica in fondo una lunghissima lettera d’amore, in falsa soggettiva, di fatto componendo una partitura sonora visiva, la stessa, nella sua radicale Differenza, che avrebbero, forse, tutti loro potuto, voluto girare e che, forse, non hanno mai voluto comporre ..È così che tutti quelli che hanno avuto la fortuna di apparire nel film, opera totale, intima e politica, rigorosa e potente, seminale, anche per pochi minuti, tutti gli amici di un tempo ritrovato, ma sempre presente, non solo quelli che hanno composto e continuano a comporre, da anni, le notti mitiche che hanno educato allo sguardo un’intera generazione, si ritrovano, tutti quanti, ad avere lo stesso peso, in un’economia che ha del matematico ma che allo stesso tempo è perfettamente fuori orario, oltre che, spesso, affettuosamente, mai manieristicamente, fuori sincrono. Penso dunque, in chiusura?, che il caro amico critico, ora anche regista, Erik, come un rabdomante, e, a tratti, come un veggente, tessendo un lavoro così ostinatamente e amorosamente improiettabile, al di là dei festival, per gli ‘impagabili’ diritti d’autore legati ai numerosissimi brani musicali presenti, facendosi naturalmente, e senza alcun narcisismo autoriale, portavoceocchio di tutti quelli che ha amato e che continua ad amare, abbia scritto, filmato e composto un lunghissimo canto, una lettera d’amore dedicata a tutti quelli che il cinema amano alla follia e che magari, proprio per la loro lucidissima ‘follia’, il cinema non sono mai riusciti, compiutamente, a fare.

 

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