"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

SPECIALE Ni un art, ni une technique (3)

Storie dell’identità tradita

Erik Negro

Oggi come non mai il cinema è fondamentale punto di fuga in cui far convergere esperienze e identità di culture e percorsi che rischiano l’oblio. Anche per questo Garin Nugroho rimane una delle figure più affascinanti, complesse e intricate del cinema indonesiano nel tentativo sempre vivo di ri-costruire la storia di un paese attraverso le storie del cinema. Nello stesso anno, lo scorso, realizza due film estremamanete differenti e quasi inconciliabili nella struttura ma che condividono le stesse profonde radici che si autoalimentano. Chaotic Love Poems è un opera apparentemente leggera, un Romeo e Giulietta del sud-est asiatico, la storia di due ragazzi così lontani e così vicini, che giocano a sfuggirsi, nonostante siano cresciuti nello stesso quartiere, si conoscano e amino fin da bambini. Sullo sfondo, un’Indonesia che cambia, da paradiso autoctono di epopee sociali e politiche a territorio sempre più caotico, teatro perfetto di finzione. A Woman from Java invece è di rigida impostazione teatrale e ci riporta negli anni venti del Novecento, nella claustrofobia di una camera, nella casa di un ricco e malato terriero olandese, che vive con la sua bellissima e giovane moglie indonesiana che rinuncerà al suo nome e così a tutti i diritti di cittadina. Nel gran teatro del mondo ogni strato ne sottende un altro, ed un infinito piano sequenza ci invita a respirare l’eleganza della lotta silenziosa che la protagonista vive come dialettica personale e morale.

Sono due donne, infatti, a tessere i fili di queste tele, di un amore che va oltre il labirinto delle proprie storie, di quelli che probabilmente non potranno essere mai vissuti, ma che in un’immagine possono resistere nella loro completa diginità di rapporti opposti e conflittuali. Yulia (Chaotic Love Poems) affronta continuamente il proprio destino di un sentimento che vive già di ricordi, impossibile, passato e sublimato in quella malinconia che scavalca i tempi, portando a riva bottiglie dai messaggi sconosciuti. Mentre Nyai (A Woman from Java) parrebbe una donna libera solo perché concubina di un facoltoso occupatore, vive l’amore come astrazione di giornate che si susseguono in una prigione dorata che nulla esclude, ma che diventa il set di spettacoli d’intrattenimento per il capo famiglia. Nella chiusura dei due film, entrambe, sono costrette a riflettersi tra specchi e memorie, a prendere coscenza. Da una parte il re-incontro del finale che lascia aperto uno spazio sul futuro, dall’altra la morte dello straniero (e della colonia) che spalanca la stessa finestra. La finzione è il caos, il caos è vita, la vita è poesia, e la poesia è amore. In entrambi i film si costruisce la razionalizzazione necessaria al gioco di chi ama non potendo possedere, lasciando l’idea che si possa esistere attraverso la possibilità di vivere in una favola in cui anche il dolore rende partecipi facendo appartenere le figure allo schermo e rendendole responsabili del proprio destino. In entrambi i film Nugroho gioca con i linguaggi, virando sul meló pop e colorato anni settanta, passando per l’amato musical di estetica anni ottanta, per chiudere con la prima moda indie dei novanta (nel primo), modulando dolcemente il fluire in scorci di musica tradizionale e danza indonesiana, sottotrame di amori e possessioni, giochi di parte e di palcoscenico, drammi familiari e derive geo-politiche (nel secondo).

 

Bisogna guardare alle radici appunto, perchè quello di Nugroho è un cinema che si insinua su un flusso in cui sono gli stessi personaggi a declinare il passare del tempo disegnandosi in uno spazio di luce che è la loro stessa identità latente. La macchina da presa a sua volta ridefinisce un cinema da camera inteso come spazio possibile (utopico) di rivendicazione di diritti, lotte, identità e appartenenza. Emerge un mescolarsi delle arti (e della performance) del secolo scorso, quasi elevate a metafora di quelle scorie che il post-coloniale lascia in grembo a realtà che ancora oggi soffrono nel tentativo subdolo di de-occidentalizzazione e riaffermazione degli elementi culturali propri dell’inizio del secolo scorso, e che ritornano intatti nell’ancora più drammatica neo-colonizzazione globalizzata e capitalista di oggi. Nugroho continua il suo percorso insieme leggero e inclassificabile di contaminatore, teso a trasformare il rigore della forme in una sostanza morale. L’amore ha le sue storie, e le condensa sui binari di una ferrovia come tra le mura di una casa, ma spesso non le rispetta e le lascia smarrirsi aggrappando i propri protagonisti alla casualità della vita come alla causalità del contesto. Rimane un percorso di visione che muta radicalmente e che lascia aperta una possibilità continua di dialogo, apparentemente utopica e retorica, ma tesa allo svelamento di un’ipotesi assoluta di scavo e comprensione. Il cinema ci può portare anche a fare i conti con noi stessi attraverso la storia, conti che spesso non tornano, alla radice.

 

 

Emergere dal nero

Marco Romagna

I Had Nowhere To Go è il buio in sala. Il buio completo, assoluto, un buio che si può vivere solo al cinema e che non esiste in formati più leggeri del DCP, un buio che nemmeno i sottotitoli possono scalfire con la loro lama di luce, un buio nel quale ogni singolo respiro catturato dal sonoro è una nuova immersione nel mistero del cinema e nel cuore di un uomo. Che poi, nel caso di Jonas Mekas, che con la sua voce teneramente insicura e con il suo inglese orgogliosamente incerto da questo buio si racconta, cinema e uomo sono sempre stati la stessa cosa, con la Bolex vissuta come una sorta di prolungamento della mano e dell’occhio, con la pellicola nella cui fisicità si è sempre rispecchiata la fisicità di passione e desiderio, con le doppie esposizioni che sempre hanno indicato con toccante naturalezza i passaggi di stati d’animo, delle stagioni, dei sorrisi di una vita. Ha sempre filmato intorno a sé, Jonas Mekas, ha sempre raccontato la sua vita con poche parole e con molte immagini: ellittiche, avanguardiste, a volte ripetute e a volte necessariamente frammentarie, liminali, personali, istintive. Immagini con le quali sarebbe stato inutile confrontarsi anche per Douglas Gordon, già capace in passato di narrare un secolo di sudore e passione attraverso le evoluzioni (non solo) calcistiche di Zinedine Zidane filmato una sera al Bernabeu.

Questa volta, però, non c’era la necessità di dare conto dell’estrema frammentazione e moltiplicazione dei punti di vista, ma all’opposto di ricomporre un bombardamento di oltre mezzo secolo di immagini già significato, e confrontarsi con chi in questo mezzo secolo – dall’arrivo a New York senza nemmeno sapere la lingua alle collaborazioni con Andy Warhol, dalla teoria del cineclub alla distribuzione di Cinema 16, dall’invenzione del videodiario al New American Cinema - queste immagini le ha concepite, girate, montate e distribuite. Per potersi concentrare sul significante Jonas Mekas - o forse, per meglio dire, sull’eterna impossibilità del cinema di classificarsi, troppo liquido e mutevole nei suoi sensi e nelle sue aspirazioni - era necessario elidere quasi totalmente il significato, riportare le immagini a quello stato di luce primigenio che è il nero, relegandole a rari lampi di astrazioni oniriche e colore, mentre Mekas viene ritratto come specchio e corollario vivente delle sue stesse parole. Serviva piombare in quel nero assoluto, in quella sottrazione estrema, in quel buio immersivo senza il quale I Had Nowhere To Go non potrebbe esistere. Serviva per muoversi a ritroso, non solo fino alle radici del cinema ma a quelle intime e storiche dell’umano, in un percorso in un certo senso inverso rispetto a quello di Mekas, che invece è sempre pronto a mettere al centro la parola, il racconto in prima persona, la sincerità di chi ancora, certo solo di non avere assolute certezze, si interroga su se stesso, sul suo passato in fuga e sul suo eterno presente da apolide, sulla guerra, su una carriera basata sulla cinefilia militante e sul più puro antropocentrismo.

 

Vuole la leggenda che I Had Nowhere To Go sia nato da un incontro casuale fra i due registi, con il dono a Gordon da parte di Mekas del suo libro, la raccolta dei diari tenuti fra il 1944 e il '54 e dati alle stampe nel ‘91. Erano gli anni della guerra, dell’arrivo dell’Armata Rossa in Lituania a distruggere quel piccolo paradiso isolato dal dolore che atterriva il mondo intero nel quale Mekas era cresciuto, erano gli anni della prigionia, dell’esilio, della fuga. Erano gli anni dei campi rifugiati, del lungo viaggio per mare, dell’arrivo negli Stati Uniti e dell’apprendistato di quella lingua mai diventata fluente e mai accettata fino in fondo perché mai sentita propria, con quel costante senso di inadeguatezza, con quella eterna assenza di un luogo nel quale riconoscersi. Di questo parla I Had Nowhere To Go, il libro/diario di Mekas che, sempre secondo leggenda, Gordon avrebbe divorato lo stesso giorno in cui gli fu donato nel corso di un lungo viaggio in treno; di questo parla I Had Nowhere To Go, questo Portrait of a Displaced Person che Douglas Gordon ha voluto dedicare al maestro lituano e alla sua storia (il film è stato presentato al Festival di Locarno edizione 2016 nel concorso Cineasti del Presente). Jonas Mekas legge stralci del suo libro con il suo inglese claudicante e con la sua voce calda ma al contempo flebile, sussurrata, quasi come se avesse paura di disturbare. Dal buio emerge un uomo, emerge una poetica, emerge l’autodisseminazione del cinema, ponte fra il passato e il presente, fonte inesauribile di domande prive di risposte univoche, senso e sensibilità, sperimentazione e immaginazione. Mentre lo straordinario lavoro sul sonoro assomma lo stridore fluido della pioggia a quello atroce dei bombardamenti e a quello secco della carta delle pagine sfogliate, la voce di Jonas Mekas racconta dal profondo del nero la sua giovinezza e il suo primo rapporto con un obiettivo, con le foto agli stivali dei soldati sovietici poco prima che la macchina fotografica gli venisse rabbiosamente strappata dalle mani e distrutta, racconta di come si è avvicinato alla ripresa quasi come un gioco fra le regolazioni e le mille possibilità di montaggio in macchina offerte dalla Bolex, racconta della nascita di Walden quando si trovò a rendersi conto che il suo girato di anni era in sostanza già un film, racconta della sua necessità di filmare i momenti di felicità, perché nel mondo di dolore ce n’è già fin troppo. Ma, soprattutto, pone ancora una volta l’accento su come la guerra abbia radicalmente modificato la sua vita e la sua condizione umana, ricordando in un caldo abbraccio di orgoglio e nostalgia i più sani momenti bucolici in famiglia, le inossidabili tradizioni lituane, quei profumi, quei suoni, quelle canzoni forzatamente abbandonate ma mai dimenticate.

Dal nero di Douglas Gordon, assenza che sta allo spettatore colmare con la stessa battaglia visionaria che si deve a un libro, emergono lampi da Lost lost lost, da Reminiscences Of a Journey to Lithuania, dai Diaries, Notes and Sketches che compongono Walden. E, a questo punto, giunto finalmente al cuore del maestro, Gordon può riaprire all’immagine, può riportare sullo schermo altri significati alla ricerca di un significante, che siano patate da pelare e schiacciare o scimmioni comodamente sdraiati su un’amaca: quello che conta è il ritorno a Jonas Mekas, non solo alle sue parole ma anche al suo fisico, al suo volto, alla sua poesia. Nella sua lingua madre, un lituano pronto a riaffiorare alla mente e sullo schermo nelle vecchie melodie, Mekas ritorna all’infanzia bruscamente interrotta dalle bombe, al senso di appartenenza, alla propria casa e alla propria cultura, resistenti nella memoria a dispetto d’ogni trauma.

 

Il corpo, la fisarmonica, e poi il volto: il cinema, come un eterno Amico Fragile. Cantava Fabrizio de André come alla fine delle sue dita dovesse necessariamente, “in qualche modo, incominciare una chitarra”: dove finiscono le dita di Jonas Mekas è sempre iniziata una macchina da presa. Una macchina da presa come un terzo occhio sulla propria vita, una macchina da presa come immortalità di un attimo, una macchina da presa che alle risposte ha sempre preferito le domande. I Had Nowhere To Go è un viaggio radicale in cerca delle radici, estrema scarnificazione che da omaggio assoluto sogna anche il passaggio di consegne. È un viaggio nel nero, dove l’idea di negazione dell’immagine coincide con il suo ritorno esplosivo sulla scena attraverso il buio in sala visto come materia e materiale insieme di una fisica incontenibile e incontenibilmente umana.

 

 

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