"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

SPECIALE C’est pas nous (Berlinale, Cannes, Venezia)

Ombre si affollano

Arturo Lima

Chime, Cloud, Serpent’s Path. Tre film in un anno. Forse faceva bene qualcuno a paragonare Kurosawa Kiyoshi a Jacques Tourneur. Parliamo infatti di ombre che si agitano sul bordo tra il quotidiano e il soprannaturale. Chime è quasi inesplicabile, Cloud indaga il maligno dell’Internet fingendo di essere un action movie, Serpent’s Path è uno stranissimo auto-remake per riflettere sulla struttura opaca del proprio filmare. Questo è Kiyoshi: più la narrazione si dissemina tra derive e piani paralleli, più accresce la tensione per qualcosa di indefinibile; più i movimenti sono semplici, più vengono sferzati da un vento inquieto, cupo. Apparentemente nulla accade, o forse è proprio il ‘nulla’ il soggetto prediletto: suono, nuvola, ripetizione. Le ombre si affollano appena sotto la superficie della vita ordinaria, anche se in questa triade di film colpisce una sensazione metallica di origine tsukamotiana, uno stridere ferroso che svuota le inquadrature, un senso di morte grigia, paurosa. La minaccia avanza con fare pacato, ma è quello il momento in cui tutto si incrina. C’è un’idea di instabilità e insieme una sete di sangue, che vengono tuttavia ridotte all’osso fino all’astrazione. A fronte di una metodicità a dir poco estrema (di narrazione e di messa in scena), cresce una minaccia prima di tutto psichica, che invade implacabile l’ambiente (urbano) e i corpi che lo abitano. È qualcosa di mentalmente deviato che con lugubre inesorabilità intacca ogni cosa come un agente atmosferico sconosciuto. In fondo quello che succede in Chime risulta un unico filo rosso che lega i tre film: c’è un rumore sinistro e assordante ma non tutti sono in grado di sentirlo, e coloro che riescono a percepirlo non è detto che siano sulla frequenza più giusta rispetto a quelli che non ne sono affetti. L’idea è quella di un’apocalisse sorda che si insinua in uno spazio ordinario e lo sovverte con un semplice cambio di tono, o di luce. È nel modo inquietante in cui questo breve e deciso cambiamento avviene che forse troveremo un giorno il lascito di cinema di Kurosawa Kiyoshi

 

 

La trasparenza contro il caos

Edipo Massi

Forse non è un caso che, giunto al decimo capitolo della saga del ‘camminatore’ iniziata nel 2011, Tsai Ming-liang si sia convinto che l’ipotesi installativa non fosse più sufficiente, e che l’unica esperienza in grado di restituire lo ‘stato’ di assenza assoluta (di desideri, di preoccupazioni, di nulla), sia quella dello spettatore in una sala cinematografica (il film viene perciò selezionato alla Berlinale 2024). L’estenuarsi fino quasi a diventare traslucido e aereiforme del walker Lee Kang-sheng, che senza dubbio porta alle estreme conseguenze l’idea di un’unica connessione corpo-durata-immagine di Tsai Ming-liang, si ipotizza affine alla seduta-visione dello spettatore cinematografico e non più installabile ma proiettabile su grande schermo. La verifica, per quanto incerta, coglie qualcosa che è forse insita in questa ‘serie’ interna all’opera di Tsai Ming-liang, e cioè il passare a un metafisico stato gassoso non solo del camminatore, ma della cornice che lo contiene e della forma stessa (che torna per sempre liquida) dell’occhio (qui Tsai sembra mettersi in conversazione con l’orbita oblunga da sempre esplorata da sempre – anche se esplicitata nella punta teorica di Kundun – da Scorsese). Assurgere a una ‘zona’ che comprende insieme presenza e assenza, dove ci si muove attraverso il caos senza esserne influenzato in alcun modo (di nuovo, non è un caso che, in termini di contrasto, in questo episodio Tsai scelga il paesaggio ‘politico’ statunitense: Washington D.C.; oppure con didascalica ironia ‘lanci’ il camminatore in un museo, ai bordi di una stazione ferroviaria e di una chiesa, per poi riportarlo nei boschi). Il sole sorge, e poi tramonta, da un lato il camminatore rallenta quasi fino a contrastare la ‘vita’ che lo circonda; dall’altro lo spettatore si sintonizza inconsciamente su una diversa lunghezza d’onda che alla fine deve all’oscurità della sala cinematografica uno sporgersi verso l’abisso più ‘naturale’ dell’artificio di una galleria di un museo.

 

 

Memorie dal sottosuolo

Edipo Massi

Sembra che Kōbō Abe, per l’adattamento del suo romanzo più allucinatamente kafkiano, avesse chiesto a Gakuryū Ishii (al tempo ancora Sogo Ishii) di fare un film il più possibile coinvolgente per il pubblico. La cosa, vista la struttura a dir poco stratificata nervosa e quasi psichedelica del romanzo, aveva molto sorpreso e preoccupato il regista. A maggior ragione, se si pensa che all’epoca (fine anni novanta) Gakuryū era in procinto di girare il film in Germania, forse con l’idea di tornare all’industrial che rompe gli argini e tracima tutto (come il romanzo) che aveva filmato dieci anni prima nel super-metallicoi>Halber Mensch (oi>½ Mensch) sulla visita in Giappone dei grandi Einstürzende Neubauten. Così, quando nel 1997 il film fu interrotto e proprio cancellato il giorno stesso dell’inizio delle riprese, gettando Gakuryū Ishii in una lunga depressione, comincia un lungo processo di rielaborazione dell’idea stessa del film che conduce ventisette anni dopo alla realizzazione dii>The Box Man (presentato alla Berlinale 2024, nel paese dove sarebbe dovuto essere girato). Alla ricerca di un modo più malleabile per rispondere alle domande che l’epocale (e leggendario) romanzo pone? Non penso chespan lang="en-US">Kōbō Abe intendesse questo. Non certo lui, che aveva scritto e sceneggiato i grandi film di Hiroshi Teshigahara riuscendo sempre a toccare l’essenza kafkiana nello splendore inquietante (nell’angoscia connaturata a qualsiasi forma di splendore), non nel rovello. Il punto è che questo romanzo letteralmente incarna il Giappone (e in parallelo una linea di cinema giapponese che potremmo tracciare da Ozu a Imamura e da Wakamatsu a Tsukamoto) nella sua essenza mutante post-atomica tsunamica, ma con una visione cesellata, scolpita. Tutto è visto dal foro-cinemascope di una scatola che appare negli angoli delle strade di Tokyo di giorno (chi la vede è colpito dalla maledizione e vuole appropriarsene, vuole diventare il nuovo box man) e scompare nell’ombra la notte. Kafka appunto (e via Kafka, il Dostoevskij dispan lang="en-US">Memorie dal sottosuolo). La tana, il sottosuolo: ogni passo – nel romanzo e, con lucidità sopraffina e ironia atroce, nel film – è diretto verso uno strato inferiore, eppure inabissandosi, sottosuolo dopo sottosuolo, sembra avverarsi una realtà più terrena, forse più umana, che in superficie.

 

 

Grand detour

Edipo Massi

Qualcuno ha fatto notare a Miguel Gomes la congiunzione astrale – così visibile da sembrare incredibile – per cui Grand Tour risulta essere una specie di doppelgänger di Caught By the Tides di Jia Zhangke. Ciò che viene raccontata è una storia troppo simile per essere ‘vero’ - il che forse è in percentuale la cosa più ardua che possa accadere, anche perché il film di Gomes ha per lo meno una base d’ispirazione specifica, due pagine particolari tratte da una raccolta di scritti di viaggio di W. Somerset Maugham, The Gentleman in the Parlour). Più facile da accettare, anche se non così comune, che nel panorama del cinema contemporaneo possa coincidere il metodo, entrambi i film infatti partono (anche nel senso proprio che si mettono in viaggio) da una materiale consapevolmente documentario che, una volta immagazzinato, si fa in modo che reagisca alla fiction ancora da filmare. L’unica differenza (in realtà non trascurabile, ma a ben vedere che rende i due film solo apparentemente lontani) è che Jia Zhangke, lavorando su un footage raccolto molti anni prima, si muove ‘naturalmente’ attorno a un discorso temporale (così le illusioni diventano tre: documentario, fiction e tempo), fra l’altro girando parallelamente alle riprese dei film di allora; mentre Gomes gira tutto prima, e lo fa giocando sull’idea di documentario turistico, certo un turismo quasi fantascientifico, visto che decide di cogliere aspetti di realtà (del sud-est asiatico) emotivamente già legati alla fiction che ha intenzione di girare (e che girerà esclusivamente in studio con piglio vonStenberghiano), inaugurando un modo del tutto inedito di scrivere una sceneggiatura. Se da un lato Zhangke trova la forma definitiva del film al montaggio, dall’altro Gomes ha già in mente una storia in cui il punto di vista si ribalta (non solo quello dei due protagonisti, ma di fatto dello spettatore che, nel passaggio dalla prima alla seconda parte, è dotato di conoscenze superiori a quelle del personaggio femminile, tanto quanto nella prima brancola nel buio insieme all’amante in fuga inseguito dalla donna onnisciente), per cui il dato documentario è gioiosamente distorto all’origine (come ogni turista che si rispetti sa ancora prima di partire). À suivre (si interrompe qui per mancanza di spazio).

 

 

 LC/LC – autoritratto del nuovo millennio

Edipo Massi

Non è escluso che il titolo di questa scheggia gemma di Carax si riferisca – col misto di furia ironia e rigore che gli è proprio – anche al fatto che è stata pensata per una mostra al Pompidou di Parigi (“il film doveva essere visto una volta, sparire”), e dunque è legittima la sorpresa (il sollievo?) di vederla trasformata in un “film-film” (sempre secondo le parole di Carax) solo grazie al grande schermo e alla situazione-sala-cinematografica di Cannes (non a caso ripetiamo le parole usate per Tsai Ming-liang). “Merda, la gente lo sta vedendo”. Lo vede, e cita Godard. Più che le Histoire(s), il riferimento corretto sembra JLG/JLG – autoportrait de décembre. LC/LC ha forse in mente il capolavoro di Godard soprattutto nel metodo, che non riguarda solo lo scavo e la risalita di film amati o sopiti nell’inconscio, ma l’idea di immagini (spesso solo un’inquadratura) che si cercano e si avvicinano l’un l’altra in modo da determinare, anzi proprio permettere di imparare il montaggio e di “mostrare qualcosa sul movimento” (e – qui davvero godardiano – di dire qualcosa di politico, Gaza compresa). Situazione primaria, affine alle origini (sempre anelate da Carax), che a sua volta ha il volto ovale dell’auto-ritratto (e questo avvicina Carax a Kitano, come si vede in questo numero). Più che una forma narrativa, Carax sperimenta così una sessione musicale ‘jazzata’ dove scrivere e montare improvvisano una melodia che va oltre le riprese o il set (di cui si potrà fare quasi completamente a meno, a parte ciò che riguarda il proprio corpo, l’auto-ritratto, peraltro filmato da Caroline Champetier, a cui vanno aggiunti dei frammenti definibili come home-movies dove Carax film sua figlia sul… Pont Neuf). Per cui è abbastanza facile riferirsi al film-saggio, che però sarebbe una deviazione rispetto al film-film in cui finalmente Carax si ritrova. D’altra parte, alla domanda-commissione del Pompidou – dove sei, Leos Carax? – la risposta è subito data all’inizio di questi bellissimi quarantuno minuti: “Non lo so”.

 

 

Nostro pane quotidiano

Fulvio Baglivi, Lorenzo Esposito

Progetto lungo, dilatato, verticale (stavolta pure diffuso, le tre parti per un totale di quasi dieci ore suddivise in tre festival successivi: Cannes, Locarno, Venezia) come tutta l’idea di cinema di Wang Bing. La vita ridotta al lavoro quotidiano, senza troppo bisogno di esplicitare l’intento politico, è invece martellante tunnel senza vie d’uscita, capacità unica di far coincidere strenua osservazione e abisso della durata entro cui i corpi (di questi giovani) possono solo sperare di sopravvivere. Nessun moralismo, piuttosto un rigore inquietante, una pervicacia che cerca di riacquistare uno sguardo laddove la struttura economica costringe ad avanzare a testa bassa, ciechi (ma non si saprebbe neanche più come definirla questa forma di parcellizzazione senza senso apparente se non con la distruzione dell’essere umano che le è connessa). Come nel precedente Bitter Money, dove Wang Bing già raccontava questo esercito di schiavi fantasmi che vaga per la sconfinata Cina post-maoista alla ricerca del pane quotidiano, la povertà e la perdita di ogni valore sono i protagonisti di questa sinfonia dedicata ai disperati senza volto e senza voce (e andrebbe considerato quale diretto antecedente anche 15 Hours, gemello monstre di Bitter Money sui lavoratori dell’industria dell’abbigliamento, costretto solo per la durata a farsi passare per installazione più che per un film). Affascinante tuttavia il segmento finale, che illumina il ritorno a casa di una qualche luce elegiaca, o solo malinconica, che forse allude a un’uscita dal tunnel, o perlomeno si mette alle spalle le squallide tane dove l’industria tessile stritola vite. Alla grigia ripetizione di spazi gesti e colori, subentra inatteso il ritorno, una lunga salita all’aperto in montagna che culmina con un matrimonio. Un flebile richiamo alla vita che sfugge involontariamente (e in maniera affascinante) all’ossessione osservazionale, che per Wang Bing resta l’essenza del processo, come se la fuoriuscita dalla fabbrica significasse l’entrata nella storia.

 

 

Epica e sacrificio

Fulvio Baglivi, Lorenzo Esposito

Se non fosse per la lucidità d’intenti e la chiarezza politica, ci si dovrebbe ancora stupire – al secondo lungometraggio – dell’istinto per l’epica di questa giovane regista georgiana. Tutto, la luce terrosa corrusca e ferrosa, il mondo visto come un vasto acquitrino di origine femminile, il movimento liscio potente ma costellato da vere e proprio fratture, faglie gigantesche che si aprono come bocche oscene – tutto contribuisce a creare una sorta di carnale, durissimo dramma epico (un po’ come se l’idea sacrificale dell’immagine di Tarkóvskij incontrasse l’olimpicità di Ford). È la stessa Kulumbegashvili a chiarire cosa intende per epico: “non uno stile narrativo, ma la vasta portata della vita e dell’esistenza di un individuo”. L’esistenza è quella di una donna sola che conduce la sua battaglia solitaria rinunciando a se stessa: pratica aborti clandestini in aiuto di donne straziate dal travaglio e dal controllo cui sono sottoposte. L’epica individuale così si connette col nervo scoperto dell’origine, della nascita e della morte, ma slittando su un piano misterioso che sembra rivolgersi metafisicamente all’arco tra terra e cielo (qui siamo più dalle parti di Dovženko). Se uno squarcio si è aperto in modo irreversibile, bisogna avere il coraggio di attraversarlo anche se, come è costretta ad accettare la protagonista, si deve fare i conti con l’impossibilità di produrre un cambiamento. Perché la donna, parte della Terra e delle sue creature, è costretta ad accettare la sua natura, l’epica è il vivere stesso, valori e ideali sono passati, mai nati, abortiti, non c’è più spazio per la hybris. Interessante allora come la regista insista nelle sue dichiarazioni sulla fragilità del processo di creazione, dell’insicurezza e dell’isolamento da cui nascono fino ad oggi i suoi film. Non solo per l’evidente piano metaforico in gioco, ma soprattutto perché la lentezza che la Kulumbegashvili rivendica come parte ineliminabile della sua regia, è forse l’indicazione politica maggiore, il modo in cui il tempo della messa al mondo (per esempio: di un film o di un bambino), combatte l’oscenità morale della realtà cui sembriamo non poter più sfuggire.

 

 

Cuore di vetro

Fulvio Baglivi, Lorenzo Esposito

Harvest sorprende per una certa inclassificabilità. Lavora su un’idea di tempo e spazio ignoti, anzi che si mettono in conversazione con l’ignoto (non si è troppo lontani dal vero a considerare questo un film di fantascienza). Le stesse domande che pone – narrativamente minime – spariscono di fronte al mistero di una violenza grigia, fangosa, che sembra provenire dal nulla. In quale tempo storico agisce questa comunità cupa, al limite del culto, non è dato sapere. C’è forse qualche riferimento a una prossima rivoluzione industriale che spazzerà via questi residui agrari (il disegnatore di mappe dovrebbe incarnare questa ipotesi), ma di questa rivoluzione non si vedrà altro che la dissoluzione della comunità stessa, implosa dall’interno, sepolta sotto le sue nefandezze. Distese e vallate rigogliose convivono con una violenza mostruosa, accanita, quasi ancestrale. Tsangari palesa il titolo del romanzo fonte dell’adattamento,Harvest di Jim Crace, ma a poco serve, se non che lo scrittore si è sempre interessato alla messa in scena di certe età oscure, e che Tsangari riesce col film a ripercorrere le tappe di una scrittura che quanto più procede austera tanto più si spappola dall’interno (esattamente come la comunità protagonista). Potrebbe servire l’Herzog di Cuore di vetro, per questa idea di spossessamento e follia allucinatoria dell’esistenza che converge direttamente sull’immagine facendone il nucleo di qualcosa che brucia prima ancora di cominciare e che finisce in cenere (Tsangari parla di dagherrotipo, splendente fanghiglia senza futuro). Non sappiamo quanto possa servire l’idea che alla fine sia un western (altra indicazione di Tsangari), se non ad aumentare il misto intangibilità e caos che attraversa il film. Ma appunto, l’a-storicità del film è l’elemento più affascinante, l’idea per cui sia i personaggi che lo spettatore siano costretti a uno stato perenne di perdita e esilio senza possibile identificazione (in qualche modo brechtiano, questo sì).

 

 

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