"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

SPECIALE The Female of the Species (a cura di Edipo Massi e Arturo Lima)

As I Want

L’immagine sgranata video di un nugolo di maschi stupratori, la notte corrusca di una rivoluzione già in crisi, gruppi che si fronteggiano, che si muovono sbavati e sbavanti, nuclei di violenza insana, vitrea, l’estremo tentativo di salvare delle ragazze scese in piazza (Tahrir) per la libertà e prese d’assalto, un uomo avanza con un lanciafiamme cercando di disperdere gli assatanati. Samaher Alqadi, palestinese al Cairo, scende in strada e interpella quei maschi, li provoca, non è lei, è la caméra a stabilire il campo di forza che innerva conflitto dentro il conflitto. La sovrapposizione tra la battaglia presente, il dialogo interiore e l’eterna lotta palestinese. Tahrir, Ramallah. Gravidanza, militanza. Conversazione immaginaria: la madre, la Palestina. As I want è un film che vive dei propri squilibri, dei propri alti e bassi, delle proprie inquietudini ma che riesce a delineare una linea di resistenza inusuale, unica.

All Eyes Off Me

Gravidanza, ancora. Dall’altra parte, in Israele. Le amiche raccontano di sangue e aborti, cinicamente, come se nulla fosse. Al tuo ragazzo chiedi di essere picchiata, per provare. Risveglio dei corpi lividi, veri. Poi però resti con l’uomo anziano, stupita da un altro tipo di complicità. Cellulari, teoria dell’X-factor, la ragazza si commuove mentre guarda il video di tanta disinvolta malizia e vulnerabilità. Piange su una panchina mentre fa la guardia ai cani che ha portato a pisciare e cacare. Hadas Ben Aroya, sbuffando e ghignando, precisa: smettete di guardarmi. All Eyes Off Me. Il primo e precedente, già brutalmente narcisista, recitava People That Are Not Me. Me Me Me. Io Io Io. Malinconicamente. Con durezza e certa vaghezza di struttura, tre episodi buttati lì, eppure senza furbizie fotografiche o di montaggio, si vede quel che si vede, ‘fuck the coolness’. E quel tanto di esibizionismo si trasforma in un discorso puramente fisico dove a contare non è l’analisi né il contesto ma la creazione dello spazio.

 

Censor

Londra livida horror anni ottanta. VHS da censurare. La censura che è in noi, forse un omicidio, la sete di sangue. Fa tenerezza come film in costume, ma è talmente preciso e onesto nel ricordare quegli anni. Prano Bailey-Bond, primo film, da dove ti viene questa conoscenza di cose che non hai vissuto? Di cui non sai niente? Non-sapere significa trasformare energia, si ricorda qui accanto. Notevole il silenzio, o meglio la cura del suono ovattato e vuoto e la luce scabrosa, foriera di perversione, cronenberghiana quasi, se non fosse l’adesione (dolce, certo) al genere nel finale che in parte normalizza. Ma il nulla filmato per lungo tempo all’inizio, l’accadere pesante del nulla rotto dall’omicidio improvviso del regista che ti ossessiona, nervo teso nel bel mezzo del film, con i capelli bagnati e appiccicati nella notte di pioggia lucida e violenta, ne valgono l’idea stessa.

 

Mainstream

Guardarsi allo specchio sovrapposto ai mille schermini e altrettante camerine e non vedersi più. Mangiavi merda vestito da coniglio gigante ed eri molto più creativo. Quindi, alla prima occasione, realizzi anni di idee e perdi il controllo. Una trama banale. Può darsi. Tante volte lo si è detto di tuo padre, Gia Coppola, quando faceva anche quei film piccoli. Intanto però c’è una coerenza nel raccontare l’odierna globale eterodirezione dell’io - il lungo addio, il grande vuoto - che non è da tutti. Forse è dall’idea di bel pacchetto per tutti i gusti che bisogna liberarsi, però la verità è che qui forse si voleva solo raccontare una storia e dei personaggi. Esattamente il contrario del fiume principale in bella vista del titolo. Qualcosa di più semplice e di più segreto, un piccolo affluente che non cerca seguaci.

 

Nous

Lento e avvolgente ritorno a casa notturno. Flash-back dal film precedente. L’avvicinamento dilata il racconto, spirale dopo spirale. La storia personale entra fluida, poetica nell’ingranaggio freddo di una Nazione che ormai è un corpo martoriato. Ferite. Bisogna scavare più a fondo. Si può ancora dire noi? E il documentario è un livello accettabile di immaginazione della realtà? Alice Diop è già a un livello superiore. L’inizio e la fine, misteriosi, l’alba di una caccia nei boschi, renoiriana eco. La Règle du jeu parlava già di un paese che faticava a riconoscersi. Soprende la consapevolezza, la dura saggezza di questo grande film. La RER B che taglia Parigi da Nord a Sud non è altro che ulteriore lacerazione. Non unisce, va e riporta a casa, divide tutti. Ma anche questo viene detto con l’attenzione giusta, l’apprensione giusta, la tensione giusta. Alle divisioni che si autoalimentano, la risposta di uno sguardo che invita con accortezza a misurare il nostro imbarazzo. A guardar bene. C’è sempre uno sprazzo di umanità che si ostina a resistere. 

 

Taming the Garden

L’immagine dell’albero trasportato sulle acque che segna questo film e di cui giustamente tutti parlano, non è più poeticamente rilevante del trasporto stesso in mezzo a una parata di sguardi sbigottiti e colpiti al cuore. E il viaggio non è a sua volta più politicamente rilevante del fatto che l’albero venga sradicato per fini tutt’altro che nobili. Un albero è un albero, filmalo nella terra e con la comunità cui appartiene e che lo veglia. L’atto dello scavare e del portare via per sempre alla vista è lo stesso che l’atto di cavare gli occhi e, infine, di sottrarre valori a una comunità il cui essere comunità può dipendere anche solo dallo svegliarsi la mattina e vedere quell’albero al suo posto. Riconoscere e riconoscersi. Sentirsi a casa come riconoscimento di un’identità visiva e non solo giuridica. Salomé Jashi ha la sensibilità di ricreare questa rottura profonda nel cuore d’Europa nell’andamento stesso del film, che solo a poco a poco comprende e apre gli occhi nel momento in cui racconta di uno spodestamento e di un accecamento.  

 

The North Wind

Ecco di nuovo la Russia con le sue luci ambrate sotto una neve eterna. Un Capodanno dopo l’altro, la ripetizione del rito, la famiglia barocca che si riunisce su un tappeto d’anni barocchi (Nabokov si sarebbe divertito). Non solo la lezione della Muratova ma l’eco del Klimov di Agony sembra ispirare questo racconto matriarcale di fate della grande Renata Litvinova. L’attesa della ‘tredicesima ora’ può portare la vita in un labirinto strabiliante di vesti e arazzi e specchi, oppure all’agognata fine in una risata d’amore e d’angoscia. Ma la felicità in questo mondo sospeso autocelebrante è folle, visionaria, incontrollata. Le regia stessa c’è per mettersi a soqquadro. E tutto, al contrario, comincia a colare a picco. Il caos. Basta poco, un tassello che viene a mancare, l’amore. Per colpa di un uomo inadeguato, di solito. “Stai lì ad aspettarli e non c’è niente da aspettare”. Ma la ripetizione di gesti e dialoghi, cioè la struttura stessa del film, è il dato reale, quotidiano, o meglio l’ironia acida con cui lo si testimonia (qui la Litvinova è totalmente muratoviana), la semplice constatazione che la vita di tutti i giorni è fatta per la maggior parte di gesti sempre uguali e che siamo tutti immersi in un’eterna prova dello spettacolo che ci affligge. Eppure domani è un nuovo giorno. Anche la Litvinova è, in fondo, una fervente proustiana.

 

The Scary of Sixty-First

Il matriarcato, con tinte anfetaminiche, si sposta a New York. Podcast (i live intitolati Red Scare che hanno reso famosa Dasha Nekrasova), culti metropolitani, cospirazioni interplanetarie (via Mr. Robot), ingorgo di traumi che si infiltrano nello spazio, l’orribile Jeffrey Epstein che aleggia su tutto e possiede le nostre protagoniste (le prime due ossessionate, la terza per davvero, nella sequenza più pazza, oracolare). Inquiline polanskiane in 16mm, edotte pure di Fulci, Argento e l’indimenticabile Ferrara di Ms. 45. E poi: Eyes Wide Shut (periodo natalizio compreso). Un film infestato. Fin troppo consapevole sovrastrutturato e languidamente soddisfatto di esserlo. Traffici sessuali, ostilità continua tra le persone, paura, tristezza e disomogeneità al limite dell’amatoriale vanno di pari passo nell’esordio di Dasha Nekrasova. Perversione e freschezza inattesa di quando si agisce con poca accuratezza. Anche questo volutamente, ovvio (ma l’idea del 16mm salva tutto). Mescolare la fogna online di insulti e paranoie strampalate con la calda luce del cinema di genere amato. Un vero thriller psicosessuale. Le due coinquiline in fondo vorrebbero essere fermate, Epstein le dovrebbe ridurre al silenzio, questo le renderebbe importanti, confermerebbe le loro peggiori paure. Sono due maniache. L’unica che Epstein possiede davvero è però la terza amica, vero contenitore di traumi che alla fine si masturba con vecchi cimeli d’antiche casate reali e bucce d’arancia. Il film mischia di continuo cose assurde e futili alla rivolta vera e propria contro certo modo di fare film e intendere la lotta di genere. Ma è divertente, di talento e supera il suo stesso vittimismo.

 

Miguel’s War

Famiglia mista, libanese e siriana. Il conflitto estremo per l’identità nazionale diventa un conflitto a tutti i livelli, un uomo gay in guerra con la propria famiglia e militare durante la guerra civile. Poi la fuga verso Madrid in piena rottura post-franchista e subito Miguel si unisce a Pepi Luci Bom e le altre ragazze del mucchio. Molto dopo, il ritorno in Libano. Grazie a Eliane Rehab, dotata di uno sguardo duro, per nulla incline a patetismi di sorta, che ricostruisce una storia personale dolente e assediata da fantasmi e non detti secondo un metodo puramente compositivo, di montaggio. Il narcisismo di Miguel nel vedersi finalmente ritratto viene disinnescato dal controllo ossessivo della regista per i diversi piani in gioco: l’archivio di famiglia, i ricordi veri e quelli segreti, la città allora e la città riattraversata oggi, la rimessa in scena fasulla su un finto teatro dei traumi più profondi, l’uso spregiudicato della parola nel racconto sessuale, le interviste, l’animazione, la pura rievocazione. Miguel eccede per difendersi dall’eccesso della storia. L’occhio di Eliane Rehab però non permette l’ennesima orgia (come forse Miguel vorrebbe), ma impone la dissezione offrendo un’occasione di catarsi non del tutto colta dal protagonista.

 

Celts

Una specie di Kasdan serbo. 1993, guerra e dissoluzione. Milica Tomović però sceglie di creare uno spazio, una spirale interiore che finalmente non si limiti al campo di battaglia ma lo sposti su un piano diversamente pirotecnico e meno simbolico possibile. Alla fine un gruppo di famiglia in interni fluido e cupo che appassiona per il desiderio di scoprire un set e inventare un’immagine. Di nuovo in costume, è una tendenza. Forse prima si era più liberi, anche sotto le bombe. Perciò insieme al crollo di una nazione si parla di sperma e di alcol e gli occhi bruciano per il troppo fumo. Identità che scivolano via, tenute insieme solo dal gusto ancora vivo per la discussione, il confronto. Poco o molto amore, tempi incerti. Ma un bel film.

 

Amor Fati

Volti. Volti dipinti più che filmati. Come non si vedeva da tempo. Amor Fati di Cláudia Varejão è uno dei film più sottovalutati di quest’anno. Certo, parla una lingua antica, forse perduta. Non so se esattamente nietzscheana, anche se l’eternità circolare dei personaggi di Claudia Varejão molto deve al suo sguardo intenso in modo stupefacente ma anche segretamente ironico, si direbbe quasi sornione (ripeto, non so se addirittura dionisiaco). Oltremodo poetico, Amor Fati è fatto di traiettorie, di sguardi lanciati e corrisposti (per l’eternità). Ogni volta che ritornano a casa, ripercorrono la curva spontanea da cui sono originati. Da qui questa sorta di umanesimo e di libertà di amare che sembra concepire il film, e forse il cinema stesso, come un’alchimia (da questo punto di vista la Varejão guarda senza remore all’insegnamento di Oliveira - Francisca, Vale Abraão). Il tempo, nella concezione della Varejão, non è esattamente eterno ritorno, né esattamente al di là del tempo: piuttosto qualcosa che, nello spazio, è in ascolto delle eco e delle onde sonore, e che ha a che fare con una materia ogni volta perduta e riconosciuta (ecco un’altra proustiana). La cosa più bella di questo film è la finezza dell’orchestrazione, il disegno complesso che però trasforma il rigore teorico in gentilezza del tocco.

 

A River Runs, Turns, Erases, Replaces

Curiosa storia di un film che decide di cambiare in corsa. All’inizio è solo camera di sorveglianza fissa che trattiene il silenzio e il vuoto e che lentamente, al rumore delle sirene, vede riapparire persone come alieni. Wuhan osservata per mesi da un solo occhio dallo stesso punto. Il 4 aprile 2020 le persone tornano, incerte anche se e come attraversare la strada,. Shengze Zhu deve aver colto qualcosa di malinconico e distruttivo in questo ritorno più che nel vuoto assoluto precedente. Come se, tristemente, nulla fosse cambiato. Il fiume ricomincia a scorrere, le acque ad affollarsi nel luogo sempre sbagliato. Macerie, lavori, la città di nuovo messa a soqquadro. Campi lunghi e nebbiosi sulle spianate, qualche bufalo. Forse Shengze Zhu ha colto un’apocalisse perggiore del virus, qualcosa di definitivamente tetro e malato in noi. Perciò il film cambia, diventa più didascalico. Ma forse non si può fare altrimenti se si vuole lasciare una testimonianza. Ci sono quattro lettere di chi è rimasto indirizzate a una nonna, un padre, un compagno e una figlia che non sono più qui. Vengono lette e scritte sull’immagine. Testi, non più altro. Forse non può essere altrimenti, bisogna documentare questa inesorabile confusione.

 

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