La metamorfosi
David Lynch meglio citarlo subito. Perché era dai tempi di Twin Peaks che non si vedeva una cosiddetta serie tv altrettanto assoluta e inesplicabile. E altrettanto kafkiana (ci torneremo).
Cosa fa pensare a Twin Peaks? Anzitutto il rapporto quasi documentario con la scena reale, ma in modo che tutto – il cosiddetto documento e, soprattutto, la cosiddetta realtà – interagendo con l’atto stesso di filmare in quel luogo specifico, mostri quanto reale sia il lato oscuro di quella realtà. Da Twin Peaks a Española il passo è semplice: tutto è inesplicabile, l’umanità e l’inumanità in gioco, il confine tra illusione e verità, tra vita e morte.
Poi c’è Benny Safdie (e suo fratello, qui nella parte di uno dei personaggi più inquietanti e ambigui e malinconici mai visti) che incontra Nathan Fielder, ossia il regista ossessivo che ripete di continuo sono ossessionato dal realismo e l’attore comico che usa il proprio corpo tragico per smascherare il lato barbaro, corrotto della realtà nell’epoca del capitalismo finanziario (Safdie ha un precedente potentissimo nell’incontro con Adam Sandler in Uncut Gems). Ovviamente per realismo Safdie (e vale anche per il piccolo grande evento autobiografico da cui Fielde ha tratto l’idea di The Curse), intende un’idea di cinema che muta nel suo ‘realizzarsi’ a contatto con una comunità e un territorio che, se sono reali, lo sono assurdamente. Si tratta cioè di un atto del vedere cangiante di per sé che svela l’ordine metafisico delle cose.
Española assurge (o forse solo attinge) alla propria forma metafisica perché la comunità che vive lì viene naturalmente inglobata, anzi Fielder ci passa del tempo prima delle riprese, e il set stesso opera anche un intervento architettonico ancora più astratto direttamente sui luoghi. Così molti guardano in caméra come nei film delle origini, e le case fatte di specchi devono davvero sembrare strane e insieme incorporate nel paesaggio. Mentre tutti si guardano intorno confusi e sembrano dirsi che sta succedendo, in verità ne fanno parte da sempre. Di nuovo è il senso di non-fiction a dare il tono narrativo e filosofico alla fiction. Gli indigeni perciò sono veri attori in maniera sensibilmente diversa da come si dice comunemente attore non professionista.
Safdie parla di Candid Camera, di Columbo…, cioè si riferisce a un uso del tempo la cui dilatazione sposta continuamente gli eventi dalla loro effettualità e coerenza. Il sonoro stesso è asincrono, il tempo è diffratto, le cose sono indefinibili, tutto evoca qualcosa che semplicemente non avviene e finisce nel vuoto, un vuoto grigio, sincopato e inspiegabilmente comico, di quella comicità amara e terribile che lascia disperati e interdetti. The Curse (e Twin Peaks): un’angoscia senza nome. Questo però il maggior risultato, aver trovato un tono che è prima di tutto uno spazio filmico, il grado necessario di messa in scena per irrompere nella scena del mondo e mutarla.
(Digressione: gli interventi pubblici di Safdie/Fielder e di Safdie da solo sono innumerevoli. Perché questo è il caso di un oggetto che nel mondo di oggi esige spiegazioni. Ascoltandoli parlare, nel complesso fa ridere come la maggior parte delle domande cui devono rispondere cerchino soprattutto di capire perché dei personaggi agiscono in un certo modo invece che in un altro, come se fossero veri appunto (e questo forse è l’aspetto comico principale della serie). Comico soprattutto perché è un modo per non parlare della tristezza, dell’immensa incomprensibile tristezza che può colpire un essere umano, che si sente responsabile, anzi colpevole, e la vergogna gli sopravvive (ecco Kafka). Ma è per questo che The Curse è impareggiabile. E fa crepare dalle risate che Safdie/Fielder abbiano dovuto fare dei pitch per spiegare questa profondità. E fa addirittura morire che gli abbiano dato dei soldi).
Arriviamo a Emma Stone. Che va citata non solo in quanto la geniale Emma Stone, ma perché il suo personaggio racchiude il cuore filmico della serie. Il fatto che si rivolga contemporaneamente a diverse persone nel modo in cui è convinta si debba fare con persone diverse, quindi con tono postura e linguaggio differenti e spesso opposti, costituisce la vera cadenza di The Curse, il suo autentico significato politico: la realtà agisce sempre sotto mentite spoglie (ed è questa la verità).
E poi c’è l’ormai già leggendario episodio finale (il decimo). Che tuttavia è assolutamente conseguente. Nella prima parte, con la puntata incorporata dello show tv, dove tutto sembra senza senso (ma perché viene mostrata la normale insensatezza della televisione, o di certa televisione e dei suoi partecipanti), vengono poste le basi per la grande invenzione anti-gravitazionale del finale, che è vera semplice e fa paura quanto potrebbe risultare vero semplice e pauroso ritrovarsi nei panni di Gregor Samsa oppure appunto di Asher Siegel (a voi lo studio di tutte le implicazioni legate alla comicità ebraica da Franz Kafka a Nathan Fielder). Surreale perciò è la parola sbagliata, si tratta di una metamorfosi che spalanca l’orrore, vicina a quelle nostre che ogni giorno occultiamo e aneliamo.