"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

LOST HIGHWAYS/CHAMBRE VERT - Souleymane Cissé

Sunday, 23 March 2025 11:19

Roberto Silvestri

Monumento dell’arte mondiale

 

Nel 2023 il festival di Cannes lo ha premiato con la Carrosse d’Or, il riconoscimento ai registi che hanno “segnato la storia del cinema con la loro audacia, i loro standard rigorosi e la loro intransigenza nella messa in scena”. Il premio gli fu rubato, ma poi restituito. Pochi giorni fa la notizia della morte, a 84 anni, di Souleymane Cissé, “monumento dell’arte mondiale” ha lasciato tutti sotto shock. Stava partendo per Ouagadougou, invitato dal Fespaco a presiedere la giuria principale del 29esimo festival panafricano del cinema (era l’unico cineasta ad avervi vinto per due volte il massimo premio, l'Etalon d’or). E poche ore prima, come Scorsese e come tanti colleghi italiani, visto che il 2025 è in Mali l’anno della cultura, si era appellato al governo militare del suo paese per salvare le sale cinematografiche dalla gentrificazione e costruirne di nuove, permettendo ai giovani di crescere, umanamente ed esteticamente, grazie al contatto diretto dei filmmaker con gli spettatori e delle platee con il grande schermo. “Questo è l'appello che rivolgo loro prima della mia morte, se Dio lo vorrà”. Cissé esortava anche la nuova generazione di colleghi a cercare l’indipendenza dai finanziamenti europei: “Oggi i giovani hanno un approccio miserabilista al cinema, da mendicanti che devono ogni volta implorare finanziamenti dall’Europa”.

uomini in barcaCerto, è Cannes che lo aveva scoperto, premiato, appoggiato finanziariamente e lanciato in tutto il mondo. Ma la Francia non ha mai potuto o non è mai riuscita a “controllarne” il racconto, a placarne l’urlo e l’intensità di fraseggio. Soprattutto negli ultimi anni. I suoi film di finzione, realizzati dopo molti reportage televisivi forzatamente governativi (“il documentario inoltre è limitato nel tempo e passa, la fiction no, resta, ti rimane dentro”), erano controcorrente, pieni di vita vera, linguisticamente mutanti, bombe atomiche spirituali di altissima potenza: religiosa (Cinque giorni di una vita, 1971), contro le brutali e ipocrite scuole coraniche in un paese per l’80% musulmano non è molto più religioso darsi al furto? (Sembene Ousmane, pioniere senegalese del cinema africano, girerà con analogo furore anticlericale, senza risparmiare guaritori animisti e missionari cristiani, Xala, ma solo nel 1975) ; femminista (Den Muso, La ragazzina, 1975), sull’odissea tragica di una ragazza madre, oltretutto muta, abbandonata anche dalla famiglia, ma capace di impreviste vendette; operaista (Baara, Il lavoro, 1977), sulle aspre lotte sindacali nel paese, argomento tabù, e non solo in Africa come sappiamo; rivoluzionaria (Finye, Il vento, 1982) sul movimento studentesco che rompe gli steccati, anche di classe, e che effettivamente subito dopo esplose davvero nel paese, ma che il presidente Moussa Traoré, inorgoglito da un artista connazionale riconosciuto nel mondo, non si sentì di bloccare nonostante una forte polemica contro i militari, e in Italia approdò al primo Festival Cinema Giovani di Torino consacrando Cissé come capofila della “seconda generazione”. Cioè: cominciamo a incolpare noi stessi per i mali d’Africa.

E poi il suo capolavoro, il poema bambara Yeelen (La luce, 1987), una sorta di Oppenheimer preistorico, sul diritto alla trasparenza assoluta nella ricerca magico-scientifica e alla socializzazione della sapienza, da strappare a chi ne vuole fare uno strumento malvagio, di potere personale o di classe o di casta o di sesso. Una lancia scagliata nel cuore di tutti i letteralismi e fanatismi, laici e religiosi, pericolosamente emergenti da Tehran a Washington, da Mosca a Ryad, da Tel Aviv a Budapest. E soprattutto dalle parti del Mali, zona Boko Haram.

Dedicato invece al Sudafrica appena liberato dal fascismo, dal razzismo e dall’apartheid glorificati nella costituzione di Pretoria è la suite panafricanista on the road, coproduzione Namibia, Burkina Faso, Mali e Francia, Waati (Il tempo, 1995) che non a caso cominciò a far storcere la bocca all’Occidente più ipocrita e perfino all’Anc, perché non è film apologetico ma pensoso.

Come molti cineasti africani Cissé è passato poi all’autoproduzione di film più “piccoli” e televisivi come un cine-ritratto nel 2013 O Sembene! (2013) sull’adorato patriarca, la quasi commedia all’italiana su adulterio e divorzio Min Ye (Chi sei, 2009) e O ka (La nostra casa, 2011) sorta di autobiografia, compreso il racconto della vittoriosa lotta della sua famiglia, delle sorelle soprattutto, e della combattiva comunità di quartiere contro i Diakite, i tremendi vicini di casa speculatori edilizi che da ottant’anni reclamano come propria la “casa Cissé”, fino al punto di corrompere i giudici. Tra il Manoel de Oliveira postumo (Visita ou Memórias e Confissões) e i soprusi dei coloni di West Bank contro i piccoli proprietari palestinesi cacciati dalle loro case con metodi squadristici.

Cissé, già dall’età di sei anni, è un inossidabile cinephile. Nato il 21 aprile 1940 a Bamako, è incantato da Mezzogiorno di fuoco e dai melodrammi sociali “perché riempivano i miei occhi di lacrime”. Studia a Dakar, fa il proiezionista di un cineclub e milita nell’Unione Sudanese Srd, gruppo studentesco multietnico, progressista e federalista che si richiamava all’impero Wassoulou (o Mandingo) cioè a Samory Turé che, tra il 1878 e il 1897 riunificati i territori degli attuali Mali, Guinea, Senegal, Burkina Faso, Benin, Costa d’Avorio e Sierra Leone ha resistito militarmente al colonialismo. Il progetto della vita di Sembene Ousmane, mai realizzato, era raccontarne l’epopea.

A 20 anni le sequenze televisive degli sgherri di Ciombé che sequestrano e seviziano Lumumba prima di assassinarlo, mercenari di potenze straniere, lo sconvolgono. Lo ricorda nel documentario del cambogiano Rithy Panh Souleymane Cissé cinéaste de notre temps. È la potenza emozionale di quelle immagini di nuda violenza al lavoro che cercherà per tutta la vita di riprodurre come arma di combattimento simbolico, incruenta ma imbattibile, antifa. Da marxista di tradizione animista. Durante il governo socialista di Modibo Keita, deposto non a caso nel 1968, Cissé studia cinema al Vgik di Mosca (anche con Mark Donskoi) adora la lingua russa, Eisenstein e il neorealismo italiano ma i primi saggi già dimostrano che vuole lavorare sulla realtà socio-economica africana, inventare un “linguaggio” originale e soprattutto raggiungere standard tecnici competitivi. Infatti si occupa di pittura (il ritratto dell’artista connazionale Mamadou Coulibaly), di scontro-incontro tra medicina tradizionale e medicina moderna e in L’homme et les idoles di magia nera, “Non ci credo, ma rispetto chi ci crede. Ci sono fenomeni africani che non hanno ancora spiegazioni scientifiche. In Africa affiora quella parte dell’uomo che costituisce il mistero della sua natura”. Già. Cissé oltre a essere stato sempre molto rigoroso sulla qualità delle immagini, visive e sonore, sue e dei suoi colleghi africani, pretendendo che fossero adeguate agli standard internazionali, era anche un artista moderno, allergico a preconcetti e precetti, postmoderno, capace cioè di mettere l’impegno nel fuori campo, ma anche dall’umorismo trascinante. Come John Landis. Alla domanda: “Come è riuscito a far volare nell’aria, senza trucchi visibili, il mastodontico tronco rituale di Yeelen?”, ci rispose sorridendo ma convincente, dentro l’immancabile boubou: ”Grazie alla magia Komo! Non avevamo certo i dollari per scomodare l’Industrial Light & Magic...”.

Quasi contemporaneamente, sul set di Sono un fenomeno paranormale, Alberto Sordi e Sergio Corbucci non sapevano come far volare un piccolo disco volante nella stanza senza fare ridere i polli con i fili trasparenti. Almeno a livello di effetti speciali visivi il gap tra Cinecittà e Bamako, nel 1987, si era capovolto a favore del Mali (anche se capitali francesi, tedeschi e giapponesi furono coinvolti in quella lunga e anche drammatica lavorazione). La multietnicità del paese (bambara, peul, dogon) favorisce l’apertura mentale e la ricerca, mentre l’ossessione identitaria europea la paralizza.

Yeelen fu visto in Francia da ben 300 mila spettatori. Vinse a Cannes il premio della giuria. Fu il primo film diretto da un regista sub-sahariano a uscire nelle sale commerciali italiane e può essere considerato oggi il capolavoro del filone che ha dominato il grande decennio 80 africano, il brousse-movie. Si trattava di un genere favolistico-mitologico (“coniugare l’inattualità metastorica del mito e la profondità storica dell’allegoria”, sintetizzano Maria Coletti e Leonardi De Franceschi nella prima monografia approfondita dedicata a Cissé, Soulemayne Cissé, con gli occhi dell’eternità) che aveva l’ambizione di competere a livello narrativo-politico-spettacolare con i kolossal desertici, controculturali e futuristi di Lucas e Spielberg per quanto riguarda la critica dell’ideologia e dei comportamenti autoritari, antidemocratici, passatisti e sciovinisti, costando mille volte di meno e attingendo a patrimoni culturali autonomi e ricchissimi. Inoltre erano sottotraccia anche delle divertenti allusioni satiriche alle brousee-commedies boere ambientate nei deserti boscimani tipo Ma che siamo tutti matti (1982) del sudafricano bianco Jamie Uys. Infine manipolando luce, vento, fuoco, acqua Cissé democratizza il rapporto tra paesaggio e personaggi, pietra e carne, capovolge la gerarchia tra ambiente e esseri viventi e inventa uno spazio inglobante (grazie ai ripetuti movimenti avvolgenti della cinepresa e all’equilibrio tra orizzontalità e verticalità) nel quale il giovane protagonista Nianankoro va oltre il caos del mondo, non è più sovrastato dalle situazioni o dal fato divino, incapace di azione davanti a una realtà o troppo bella o troppo spaventosa e affronterà con l’ “ala del Kore”, la conoscenza, e il “pilone magico” ammazzacriminali, il padre Soma, a cui a rubato i feticci sacri. Inizia una nuova storia. L’uomo africano è responsabile delle sue azioni, non può più trovare capri espiatori, né dio né il colonialismo. Ecco l’idea forza della seconda generazione, rafforzata dai genocidi etnici (Nigeria, Ruanda...). Anche per Nandi in Waati (“sono le donne che cambieranno questa terra”) che possiede gli occhi dell’eternità, il cinema-tempo può tornare ad essere cinema-altro movimento, sottraendosi all’insidia del kara, l’ideogramma bambara che simbolizza tutta la cosmogonia dell’universo in un cerchio perfetto, l’eterno ritorno, si è dentro e non si può uscire, Ma non neutralizza la speranza dell’azione, l’arrivo di un nuovo vento dell’est magari androgino. “Ci sono stati dei periodi di luce, al tempo dei faraoni o delle civilizzazioni che sono partite da questo continente – ha detto Cissé – seguiti da altri di transizione, e poi da un momento di arresto, di gravi difficoltà per l’Africa. Ho fatto questo film affinché gli uomini si vedano e si comprendano”. E non solo in Africa.

A proposito. Qualche anno dopo, Souleymane Cissé aggiunse, con perfido humour mandingo post-coloniale: “Ma sapete che per la scena del leone in Waati-Il tempo (1995) ho dovuto farmi prestare il re della foresta dallo zoo di Londra?

La “seconda generazione” dei cineasti africani, quella di Cissé, Idrissa Ouedraogo (La scelta, Nonna, Tilai, girati tra il 1987 e il 1990), Abderramane Sissako (Aspettando la felicità, 2002) e lo sconfinamento non metropolitano di Djibril Diop Mambety (Parlons Grand-Mere, 1989), aveva congegnato il geniale sistema della metafora astorica, appunto il brousse movie per parlare di tutto e a tutti i pubblici del mondo, e non solo africano, senza incappare nella censura o nelle trappole tese ai “grandi pionieri” nel caso avessero toccati i nervi scoperti della corruzione politica interna, già dilagante, dal colonialismo al de-colonialismo: mai parlare male della Francia, non occuparsi di Lumumba, Nkrumah, Ben Barkae e dei circa 70 colpi di stato ispirati da Parigi per continuare a beneficiare delle ricche risorse economiche di un continente che l’Occidente da secoli adora sottosviluppare. Solo il mauritano Med Hondo si è potuto permettere il ruolo di ammazzacattivi, perché poteva avvalersi del suo stato di esule politico per le sue epopee antirazziste e anti schiaviste esplicite Soleil O (1970) e West Indies (1979). E cosi Sara Maldoror, poeta delle lotte antiportoghesi in Angola (1972) e allieva, come del resto Sembene Ousmane e Abderramane Sissako, delle scuole cinematografiche sovietiche.

La prima generazione, cioé quella di Sembene Ousmane, Omaru Ganda, Jean-Pierre Dikongue-Pipa, Ababacar Samb, Timité Bassori e Paulin Vieyra, nonostante l’indipendenza appena conquistata dai loro paesi, Senegal, Mauritania, Camerun, Costa d’Avorio e Niger, erano infatti ancora costretti a utilizzare lavoro tecnico-intellettuale specializzato straniero, tecnologie di produzione e post-produzione europee e soprattutto i finanziamenti francesi della cooperazione culturale per realizzare i loro film, meglio se ambientati nel lontano passato, alfabetizzando con immagini realiste (ma non magico- realiste) un continente ad altissimo tasso di analfabetismo con grande forza polemica ma su temi piuttosto generici (critica dei costumi arcaici, contraddizioni città/campagna e modernità/tradizione, satira della nuova borghesia, oppressione della donna...). Nel disinteresse dei governi locali. Che l’arte e la cultura fossero i mezzi per il progresso complessivo dell’Africa e non il fine (lontanissimo) dello sviluppo economico, fu conquista post-sessantottina di effimeri governi, come quelli di Jerry Rawlings o Thomas Sankara, che proprio negli anni ottanta sostenne le coproduzioni interafricane, spese il 2% del Pil per la cultura (noi non superiamo lo 0.6), cercò di far pesare di più in seno all'OUA le associazioni dei cineasti, dei produttori, dei distributori e degli esercenti africani contro i monopoli stranieri. Sankara è Nianankoro. È stato lui a togliere lo scettro del potere ai capovillaggio, sostituendoli con attiviste politiche della giovane generazione. Sono stati gli stregoni a volere la sua morte.

 

 

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