"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

LOST HIGHWAYS (3) - TWST – Things We Said Today (Andrei Ujică)

Sunday, 23 March 2025 11:40

Erik Negro

Andrei Ujică (e i Beatles), videogrammi di memoria

 

 

Per cercare di descrivere, almeno apparentemente, un film impossibile, serve un punto di partenza. “C’è una frase in Madame Bovary che restituisce l’intera ambizione del libro. - Il terreno sotto i piedi era più molle di un’onda, e i solchi le parevano immensi flutti bruni che si frangessero - Quando l’ho letto da ragazzo, sono rimasto colpito dall’ebbrezza che deve aver provato Flaubert quando ha capito di essere riuscito a elevare la prosa alle vette della grande poesia. Poi nella mia mente ha cominciato a insinuarsi una domanda: quand’è che il cinema riuscirà a raggiungere la complessità della letteratura? È passato mezzo secolo e ho trovato solo risposte vaghe. C’erano alcuni sogni dei tempi della scuola che sembravano più accessibili: lavorare con un grande gruppo pop e fare un film americano. È stato però solo cinquant’anni dopo che ho osato fare un film sul primo concerto del più grande gruppo di tutti i tempi allo Shea Stadium. Come ho detto ai giovani newyorkesi – gli attori le cui voci abbiamo registrato lo scorso autunno – non importa quanto tempo ci vuole per realizzare il nostro sogno, purché lo si faccia prima di dimenticarlo”. Così Andrei Ujică attorno al suo sogno utopico, a un oggetto assolutamente spiazzante e inclassificabile nella stagnazione (dell’immagine, e non solo) dei giorni nostri. Un altro tassello di un percorso che si aprì nei giorni in cui il nuovo mondo stava nascendo.

Nell’Europa dell’autunno 1989, la storia ebbe luogo davanti ai nostri occhi, quando i videogrammi di Harun Farocki (una delle figure determinanti nella teoria dell’immagine contemporanea, con cui realizzò anche lo splendido successivo “Kamera und Wirklichkeit”) e Ujică mostrarono con la rivoluzione rumena una nuova forma di storiografia basata al tempo stesso sui media e sulla loro dissoluzione. I manifestanti hanno occupato la stazione televisiva (a Bucarest) e trasmesso continuamente per centoventi ore la diretta degli eventi, rendendo così lo studio televisivo un nuovo sito storico; le riprese ufficiali e quelle ufficiose, ciò che si doveva vedere e quello che doveva rimanere nascosto, la narrazione mediatica e quella reale. - Se allo scoppio della rivolta solo una fotocamera ha osato registrare, diceva Farocki, centinaia erano in funzione il giorno seguente -.

Videograms of a Revolution è un film unico, fondamentale come nessuno forse nel comprendere il secolo che veniva ad aprirsi da lì a poco, quello di cui già Out of The Present poteva essere testimonianza. Siamo nel maggio ‘91, dal meraviglioso archivio spaziale che Ujică modula e trasforma, Anatoli Arzebarski e Sergei Krikalev in orbita sulla stazione spaziale MIR, si trovano dall’alto a guardare la storia nel suo (dis)farsi. Mentre a uno dei due è stato permesso di tornare sulla Terra il giorno concordato, l’altro membro dell’equipaggio dovette rimanere tra le stelle a causa della situazione politica. Dieci mesi dopo aver lasciato l’Unione Sovietica, tornò in Russia; durante la sua assenza, c’era stato un putsch fallito a Mosca che ha portato al cambiamento nel nome della sua patria e alla fine di un’era. Un’odissea di terraferma vista dallo spazio, tra la cosmologia dell’assoluto nello stupore della creazione e la cronaca delle piccole crisi umane.

I due film/istallazioni successivi (2 Pasolini e Unknown Quantity) rappresentano una sorta di doppio dialogo teorico e originalissimo; il primo intorno all’autore friulano e il secondo tra due figure su ciò che è rimasto di Chernobyl. Cronache di un futuro possibile dal passato che è parte integrante del rapporto di Ujică con una realtà in cui il presente pare non esistere. Così nasce anche il complesso The Autobiography of Nicolae Ceaușescu, tratto da oltre mille ore di materiale d’archivio, studiate e montate per raccontare quel quarto di secolo che Ceausescu ha “diretto e interpretato”; un lavoro straordinario, questa volta, senza manipolazioni, solo attraverso le immagini e i suoni, concordanti solo quando non manipolati dal dittatore e dai suoi fedeli. Un’opera che, ancora una volta, amplifica cosa sia il cinema esternamente al suo auto-confinamento, interroga la storiografia contemporanea sull’uso documentale delle immagini in movimento prodotte negli ultimi due secoli, e allo stesso tempo mostra impietosamente l’uso politico di esse iniziato fin dalle origini.

 

“Il mezzo determinante di un’epoca ha sempre segnato la storia, in modo abbastanza inequivocabile in quello dell’Europa moderna. È stato influenzato dal teatro, da Shakespeare a Schiller, e successivamente dalla letteratura, fino a Tolstoj. Come sappiamo, il ventesimo secolo è filmico. Semplice, quasi elementare”. Il punto di questo discorso probabilmente si trova anche nei due incontri che Ujică ha tenuto con uno degli ultimi giganti (seppure a tratti discutibile) del pensiero a noi rimasti, Peter Sloterdijk. Prima a Rotterdam, dove tennero una splendida lezione d’introduzione al capolavoro di Esfir Shub, La caduta della dinastia dei Romanov; poi a Locarno, in una chiacchierata informale sul ripensare l’immagine nel ventesimo secolo. Da una parte il pensatore tedesco (seminale e urgente ancora oggi la sua filosofia della contestazione), dall’altra il filmmaker rumeno (fondamentale indagatore del rapporto tra simulacro e percezione). Entrambi partono da Bazin, dalle radici, dall’arte come tentativo di fermare il tempo, dall’universo parallelo che essa crea dal momento in cui i Lumière pensarono di registrare i frammenti del tempo per poterli rivedere (come rivivere) infinite volte; qui, secondo entrambi, nasce il linguaggio del cinema, dove la riproducibilità tecnica (di benjaminiana memoria) è approccio teoretico, ciò che lega l’idea della mummia all’universo, perché l’ontologia insita nell’immagine è qualcosa capace di creare, essere e natura. Un concetto caro a Platone, al processo cognitivo come al meccanismo emozionale che vede in noi un’immagine primitiva (archeobiologica e epistemologica) con cui ci rapportiamo alla realtà appena venuti alla luce. Su questa convinzione tutto il platonismo pensa a un mondo possibile senza il movimento, perché esso è corruzione della tranquillità (l’uomo saggio di Socrate, colui che cerca di esser immobile nella vita terrena, come una mummia). Cosa, dunque, ha portato al cinema? La mummificazione universale dell’essere, una crisalide del tempo, forse la stessa che - in questo ultimo film - contiene lo stormo irreale di farfalle n/del finale. L’immagine in movimento non appartiene a un tempo perché li abita tutti, si muove continuamente nel suo esser provvisoriamente fissa. Quando dimentichiamo cerchiamo di rivivere attraverso il moto, e il cinema esiste perché ama il movimento e vive nel suo stesso vitalismo. Dunque è il linguaggio stesso a produrre immagini perché il cinema non è un’arte nuova, la sua radice è nel romanzo (o forse anche in un ipotetico diario, proprio come in questo caso, o come fu appunto per Flaubert). Attraversando una parola capita che, noi spettatori, si possa costruire il proprio film mentale, e quasi mai esso collima con quello dell’autore. La storia del cinema elabora quella della parola, anche nella finzione la macchina da presa cattura il tempo documentandolo, restituendoci i suoi frammenti - Godard e la sua visione sulla finzione come atto per essenza documentale, con attori, come potrebberlo essere le figure nel paesaggio attorno ai Fab Four di Liverpool in questo ibrido TWST - evidenziando la possibilità che l’immagine attraverso la sua durata trovi il suo senso nel modellare il tempo prima che lo spazio. E dunque da dove arriva e dove andrà questa immagine? Forse l’entropia della morte é il non movimento, il cinema ci insegna come vedere le cose dopo la morte (Dio crea la mummia per far capire all’uomo la vita) ed il mondo si crea e vive attraverso la copia. Già a metà dell’800 Wagner proiettava luci sul palco e creava immagini prima mai viste. Nella prima parte del ‘900 il cinema era legato alla propaganda; il punto di rottura, per Ujică, è stato John Ford che filma lo sbarco alleato (nel “set” con più vittime mai esistito), lasciandolo così, nell’impossibilità etica di esser montato. Ecco l’importanza dell’archivio, la vividezza del materiale, perché anche una sola fotografia d’epoca è ironia e cronaca del nostro passato, come se uno stesso spazio potesse contenere tutti i dipinti del mondo in un tempo (Ejzenstejn, il “Tintoretto della Rivoluzione Sovietica”, così lo definì il romeno in quelle conversazioni). Ecco perché anche in ques’ultimo film di Ujică ogni singolo istante è il centro al cui interno circolano spettrali presenze incorporee che abitano questi luoghi, ora decongelati su qualsiasi superficie fotografica possibile. Un viaggio nel cuore nascosto di un mondo allo stesso tempo scomparso e tangibilmente presente, nelle pulsioni del secolo che fu dell’immagine, verso il luogo dove forse si è smarrita (per sempre).

TWST: Things We Said Today è un oggetto misterioso che fonde l’attimo con l’ordinario per creare un’istantanea di una città e di un paese durante i tumultuosi anni Sessanta. Il film prende il nome dalla canzone dei Beatles e racconta l’arrivo della band a New York nell’agosto del 1965 prima di un concerto allo Shea Stadium, ora demolito, ma va ben oltre quei confini. John, Paul, George e Ringo arrivano all’aeroporto JFK per tenere un concerto due giorni dopo. La prima intervista, un frammento (e quasi un flashback) che ha lasciato un segno profondo nella storia e nella memoria collettiva degli Stati Uniti, e non solo; i personaggi semi-fittizi che hanno cercato di fornire questa semi-narrazione definiscono eventi di/in cui forse nemmeno avevano la percezione esatta di essere protagonisti. È un momento cruciale nella storia, o almeno nella loro storia, in cui appaiono come rumore di fondo (o quinta esistenziale) al formarsi di un momento irripetibile. Riflessione e ricostruzione di una società in fermento, attraverso l’uso dei vari media dell’epoca, dai cinegiornali all’home video, nei formati più disparati e dai linguaggi apparentemente più incompatibili. A legare il tutto due trame di fantasia, basate però su personaggi reali, testimoni quasi improbabili ed astratti di quell’attimo, la cui identità si formerà solo nel finale. C’era eccome la Beatlemania che conquistò gli States, le orde di giornalisti che accolgono i futuri baronetti, la folla di adolescenti urlanti fuori dallo storico Warwick Hotel. Dalle interviste per strada alle caotiche conferenze stampa, immagini strappate quasi confusamente in quello squarcio della storia, al diario del secolo; il quartetto di indisciplinate e un po’ altezzose superstar britanniche evita abitualmente domande che scalfiscono appena la superficie. Il Vietnam viene menzionato di sfuggita, un primo segnale che mentre la Grande Mela sta facendo storie per quattro cittadini di Liverpool, forse altrove sta succedendo qualcosa di più importante. Qui incontriamo Geoffrey, un poeta che in seguito divenne un famoso compositore, figlio di una cantante locale. Nel corso del film, le sue storie inventate vengono raccontate da conversazioni con altri, come nel rapporto materico con la sua stessa rappresentazione oscura (dall’artista francese Yann Kebbi); è lui che ci introduce ai disordini svoltisi nel quartiere di Watts e nelle aree circostanti di Los Angeles per giorni, motivati dalla rabbia per le pratiche razziste e abusive della polizia, così come le lamentele per la discriminazione dell’occupazione, la segregazione e la povertà. Queste immagini arrivano a noi attraverso notizie che rimbalzano in televisione dall’altra parte del paese, mentre lui si sposta ad Harlem (il luogo in cui Lennon, forse ironicamente, vorrebbe vivere secondo una sua ammissione ai giornalisti) per scoprire le dure condizioni di vita dei neri e per parlare con gli abitanti del posto. Nel frattempo, sull’altro asse di questa storia, si presenta Judith, una giovane fan dei Beatles in visita a New York prima dell’incontro, che funge da copertina per il cartone animato. Judith è ora una scrittrice pubblicata e sta lavorando a un libro sul suo appuntamento inaspettato con George Harrison. Teneva  tantissimo a vedere i Beatles dal vivo, il suo mondo era molto diverso da Watts o Harlem, è una ragazza bianca, spensierata e felice, la cui mente non è avvezza a quella società; con le amiche frequenta un altro evento storico ancor più eroso dalla memoria, la World’s Fair affianco lo stadio. Mentre sognano ad occhi aperti sulla monorotaia e si chiedono se vedere o meno la pietà di Michelangelo (esposta in fiera), il contrasto tra la vita quotidiana di queste giovani donne e quelle di chi vive a poche miglia di distanza a Harlem, non poteva essere più grande. Mentre TWST raggiunge il suo epilogo, il concerto allo Shea Stadium, le storie di Geoffrey e Judith convergono, attraverso gli estratti di un racconto che Ujică scrisse nel 1972, “Isabela, the Butterfly’s Friend”. Tutto si condensa quasi magicamente in unico punto, di tempo e di spazo, nel momento in cui una generazione tutta sì è (ri)trovata. Speranza? Difficile da dirsi, quello che rimane è un senso di profonda precarietà per ciò che è stato, e (ancor di più) per quello che sarà. Uno sciame di farfalle dissolve (il) tutto, si porta via tutte quelle cariatidi rimaste immagine. Apparentemente questo film è un modo intrigante e originale di guardare il nostro passato, nel vedere come si modella la storia una volta che la polvere dei ricordi si è posata su di essa. In realtà è un opera ben più rilevante e stratificata che lascia spazio a un’infinità di interpretazioni (a iniziare da cosa sarà l’archivio un domani, nel futuro prossimo in cui ogni immagine remota potrebbe essere provvisoriamente vera come falsa.

E perché dunque i Beatles? “Un primo punto fermo è che mostrano come dei consumatori di musica, nati non dalla parte giusta, cioè di estrazione popolare in una città che nei primi anni Sessanta è soprattutto una periferia con un passato globale, grazie a una serie di circostanze fortunate e a un considerevole talento, possono diventarne produttori di altissimo livello e di formidabile presa sul pubblico. Un secondo sono le straordinarie pratiche di sconfinamento, da un genere musicale all’altro, da un’industria culturale all’altra, dal basso verso l’alto, che, con l’aiuto di mediatori intergenerazionali curiosi e un po’ eccentrici come loro, i quattro riescono a mettere in moto. Il terzo è il sense of humour, il gusto del paradosso che portano nella musica rock. Il quarto è la dimensione di gruppo, il senso del collettivo che emana da questa vicenda.” Così Ferdinando Fasce, storico nonché amico, attorno al fenomeno di quattro ragazzi che in un certo momento furono anche più famosi di Cristo, e punto di partenza fondamentale per comprendere come questo film sia estremamente più stratificato di come possa apparire nel porre una dose sterminata di domande. E una parte di quelle risposte va ricercata proprio in quelle conversazioni di cui sopra. Oggi, per Ujică e Sloterdijk, il tempo reale penetra maggiormente la riproduzione attraverso la soggettività; dobbiamo tornare a Platone, all’oggettività come lente di rappresentazione del riflesso di un oggetto. Ora l’obiettività è in crisi, siamo schiavi di un nuovo regime in cui l’immagine mente in maniera ancora piú radicale. Pensiamo a cosa possa essere il metaverso, la realtà aumentata e quella parallela, l’intelligenza artificiale che ricostruisce a suo modo una forma archivio e dunque tutta la memoria del mondo. Su questo è di pochi mesi fa la notizia della prossima uscita de la “Macchina di Habermas” (dedicata, chissà con quale piacere del soggetto, al grande filosofo e sociologo) sviluppata da Google DeepMind, e dedicata all’utopica mediazione e alla gestione del consenso in contesti di gruppo (?) per sintetizzare prospettive variegate (almeno così ci dicono). Nella società contemporanea non c'è più voglia di guardare l’evoluzione del mondo attraverso la storia del cinema, perché al cinema oramai gli uomini parlano unicamente della propria vita soggettiva. In questo film senza tempo, l’aspetto frammentario e a forma di costellazione comprende in sé molteplici campi semantici legati alla poliedricità di un nucleo temporale in cerca dell’utopia; lottando con i materiali, in un certo senso, lotta con(tro) la società, oltrepassando il discorso di cristallizzazione e aprendosi verso un orizzonte di speranza passata che trapela nella dissonanza delle animazioni, nella tensione costante degli eventi, nel concetto pulsante e apparente del disastro di una modernità al collasso. “Il tratto fondamentale del mondo moderno è la conquista del mondo risolto in immagine, come configurazione della produzione rappresentante”, così Heidegger come se potenzialmente avesse potuto veder scorrere nei suoi occhi tutta la straordinaria filmografia di Ujică.

Sintatticamente (ri)costruita di dialettiche tra il limite e l’assoluto, il sensibile e l’intelletto, la teoria e la pratica, il reale e l’immaginario, l’identità e l’alterità. Infine appunto la soggettività (quella arginata da Nietzsche, nel simulacro della sua morte di Dio) come tramite di libertà di un’arte che si concepisce fino a quando mostra se stessa (l’essere documentale, secondo Wittgenstein), ma che può oltrepassare solo nella sua collettività, nella speranza che è intrinseca all’opera d’arte, la quale nella sua dialettica di reale e irreale (come immanenza e trascendenza) contiene in sé gli elementi per oltrepassare l’immagine stessa, l’archivio, la storia e forse la mortalità di un ricordo. In quel caldo pomeriggio ticinese questo piccolo e immenso autore rumeno raccontava come la pittura divenne folle con Malevic e il cinema si fece grande ad Hollywood, perché allora si cercava il simbolismo in entrambe; mentre oggi le immagini sono sincretiche e digitali, non piú fabbricate dall’uomo, così anche la narrazione cerca nuove strade distanti dalla letteratura. Dobbiamo capire come vedere le cose in un modo diverso. Forse basterebbe ciò per raccontare questo film impossibile, che ci invita a pensare sempre a ciò che stiamo guardando e a mettere in discussione continuamente il nostro ruolo di spettatori. Anche solo per rispetto a cosa è stata l’immagine nel XX secolo, probabilmente solo un ricordo, come quattro uomini che attraversano le strisce di Abbey Road. “I read the news today, oh boy / About a lucky man who made the grade / And though the news was rather sad / Well, I just had to laugh / I saw the photograph ... I read the news today, oh boy / Four thousand holes in Blackburn, Lancashire / And though the holes were rather small / They had to count them all / Now they know how many holes it takes to fill the Albert Hall / I'd love to turn you on”. L'inizio e la fine di A Day in the Life, uno degli ultimi capolavori del quartetto di Liverpool, da ascoltare in una notte d’inverno per chiedersi, con una flagrante semplicità, chi e cosa ancora possiamo essere aldilà di qualsiasi rappresentazione. Cose dette ieri, da dire oggi e che forse diremo un domani, finché avremo ancora la facoltà immutabile di provare emozioni.

 

 

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