"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

THE LAST THINGS BEFORE THE LAST (3) - LA FRANCE contre les ROBOTS (Jean-Marie Straub)

Sunday, 07 June 2020 12:41

Lorenzo Esposito

Viaggio tra le rovine

La cosa ultima di poco più di nove minuti di Jean-Marie Straub, LA FRANCE contre les ROBOTS (prima dell’ultima di quasi nove ore di C.W. Winter e Anders Edström, come da copertina e articolo successivo), porta la dedica “pour Jean-Luc”. Il film di Straub è uno dei testi condivisi della quarantena proprio come l’happening di Jean-Luc su instagram con l’ECAL. Durante la conversazione è Godard stesso a confermare l’appropriatezza della dedica: “Tutti i maggiori scrittori come Beckett o James Joyce e altri prima di loro, o i grandi poeti come Dante, cercavano di andare oltre il linguaggio, o sotto il linguaggio. Anche i lettristi come Isidore Isou, che conoscevo, provavano a stare oltre, di lato e sotto il linguaggio. E, come ho detto nel mio ultimo film, il linguaggio è una mistura di parola e immagine. Può sembrare un po’ primitivo ma è così, ora queste mie parole non sono la parola, è solo la mia voce. La parola non è questo. Se voglio sentire me stesso parlare - come credo dicesse Malraux - ho bisogno di sentire la gola, posso sentire me stesso attraverso la gola, non con la lingua e le orecchie. Dunque c’è qualcos’altro, non so bene cosa. Bernanos era su questo piano anche lui”. I punti di contatto con Straub sono almeno due. Il primo è Bernanos, il cui testo dà titolo e voce a LA FRANCE contre les ROBOTS. L’altro, più importante, riguarda la ramificazione sonora della parola che per Godard non solo non ha nulla a che fare col linguaggio ma, se vuole davvero sentirsi in quanto parola, deve provare a giocare se stessa in tutte le direzioni possibili sopra e sotto la sua superficie. Straub, che può ben dire pour Jean-Luc, su questo si è già dichiarato d’accordo in molte occasioni, una abbastanza recente (D. Fumarola, A. Momo, Atlante sentimentale del cinema per il XXI secolo, DeriveApprodi 2013): “Non il linguaggio, odio questa parola. Non c’è linguaggio cinematografico e non c’è linguaggio neanche parlato. No, no. Della lingua, diciamo della lingua”. E più avanti: “Perché non vedi nulla! Le cose si vedono dopo mesi, anni. Si scoprono, non si vedono”.

Per Straub Bernanos è un ritorno. Un ritorno che arriva da molto lontano, da un progetto mai realizzato, a partire da un racconto di Bernanos, pensato con Danièle Huillet nel 1954 e ripreso solo nel 2013 (con Huillet già scomparsa). Il film del 2013 Dialogues d’ombres, non a caso però preso in esame la prima volta durante la guerra d’Algeria, riflette sulla lingua (non il linguaggio, dunque) dell’amore, su questo suo strano continuo scambio di illusioni rivolte al passato in grado però - e in quanto tale - di illuminarne i passaggi più oscuri e insieme di constatarne il peso. Walter Benjamin, su cui è puntellato questo numero di film parlato, scriveva profeticamente nella quinta delle sue Tesi di filosofia della storia: “La vera immagine del passato passa di sfuggita. Solo nell’immagine, che balena una volta per tutte nell’attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato”.

Ripensando ai cineasti che si sono fatti attraversare da Bernanos - Bresson e Pialat per esempio - si può ricostruire lo sforzo di chi ha provato a cogliere nell’attacco rapido di un’immagine all’altra l’interpretazione che può curare il distacco della storia dal presente. Ancora Benjamin: “Poiché è un’immagine irrevocabile del passato che rischia di svanire ad ogni presente che non si riconosca significato, indicato in esso”. Bresson Pialat Straub e Godard sono consapevoli ovviamente che non si tratta di recuperare il passato ma di riarticolarlo, e questo vuol dire porsi su un bilico dove il punto in cui una cosa sfugge - l’immagine, la parola - è il punto in cui ne comincia l’interpretazione. Bresson in particolare, nelle sue Note sul cinematografo (troppo poco assiduamente rilette, ma per la rilettura vale quanto citato di Straub sulla rivisione: “Le cose si vedono dopo mesi, anni”), fa balenare più volte questa necessità di un “movimento dall’esterno verso l’interno”, arrivando a alludere, in questa caccia al significato, l’esistenza di un rapporto telepatico (una “divinazione”) che non è lontano dai passaggi più esoterici di Benjamin o dalla vicinanza tra follia e grazia su cui riflette Pialat nel capolavoro Sous le soleil de Satan. Il film, nell’intuizione di questi grandi, “non analizza e non spiega” ma “ricompone” (sempre Bresson).

Non c’è nulla da fare, il nostro è un viaggio tra le rovine. Un virus di ultima generazione è appena il sintomo di una caduta più grande. Cosa cerca dunque di ricomporre Straub con LA FRANCE contre les ROBOTS? Un uomo passeggia lungo le rive di un lago. Passeggia due volte, la prima di là dal calare delle prime luci della notte, la seconda di giorno, un giorno grigio, nuvoloso. Ripete per due volte le stesse parole (l’estratto da Bernanos), la prima volta con dura sicurezza, la seconda indugiando fra le pause del discorso. Nessuno intorno, a parte l’acqua e i monti in lontananza e, alla fine della seconda passeggiata, una papera fila nell’inquadratura nuotandogli a fianco mentre ripete le parole che chiudono il film: “Un mondo vinto per la Tecnica è perduto per la Libertà”. Frase la cui rabbia è pari solo alla sua malinconia. Ma è sulla data posta all’inizio del film che forse bisogna concentrarsi, 1945. Ecco il gesto semplice e incontestabile che racchiude la forza paradossale di un dire che è già tutto là: non in quanto avvenuto ma incomprensibile quando avveniva, e solo riletto e rivisto - illuminato d’un tratto da un altro punto della storia – in grado di spostare il suo peso nel presente. La Dittatura, il corso della cui evoluzione è fatale, scandisce il passeggiatore straubiano, è là, “la Dittatura del denaro, della razza, della classe, della Nazione”, perché il sistema che la sorregge, oltre a non essere riformabile, “non cambierà il corso della sua evoluzione, per la buona ragione che già non evolve più; si organizza solamente in vista di durare ancora un po’, di sopravvivere”. E per di più “sembra sempre più disposto a imporre le sue probabilmente irrisolvibili contraddizioni con la forza, grazie a una regolamentazione ogni giorno più minuziosa e severa”.

Dunque, tutto già detto e visto? Attenzione. Prendere queste parole come un déja vu, significa fallire e perpetuare il fallimento. Significa non aver compreso Benjamin, fraintendere Bernanos e mancare Straub. Non è la storia che si ripete, è al contrario il punto in cui si cristallizza e, cristallizzandosi, percorre contemporaneamente due strade: si inabissa e si ripercuote nel futuro. I film di Straub danno conto, anzi proprio azionano, questo doppio movimento che, politicamente, cerca una metrica nello spazio tra immagine e parola (compreso anche il doppio livello sonoro e pittorico su cui si impegna Godard), qualcosa che ha a che fare con la materia stessa della storia, con la speranza quando non c’è più speranza, e che nessun robot potrà mai capire.

 

 

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