La trasparenza contro il caos
Edipo Massi
Forse non è un caso che, giunto al decimo capitolo della saga del ‘camminatore’ iniziata nel 2011, Tsai Ming-liang si sia convinto che l’ipotesi installativa non fosse più sufficiente, e che l’unica esperienza in grado di restituire lo ‘stato’ di assenza assoluta (di desideri, di preoccupazioni, di nulla), sia quella dello spettatore in una sala cinematografica (il film viene perciò selezionato alla Berlinale 2024). L’estenuarsi fino quasi a diventare traslucido e aereiforme del walker Lee Kang-sheng, che senza dubbio porta alle estreme conseguenze l’idea di un’unica connessione corpo-durata-immagine di Tsai Ming-liang, si ipotizza affine alla seduta-visione dello spettatore cinematografico e non più installabile ma proiettabile su grande schermo. La verifica, per quanto incerta, coglie qualcosa che è forse insita in questa ‘serie’ interna all’opera di Tsai Ming-liang, e cioè il passare a un metafisico stato gassoso non solo del camminatore, ma della cornice che lo contiene e della forma stessa (che torna per sempre liquida) dell’occhio (qui Tsai sembra mettersi in conversazione con l’orbita oblunga da sempre esplorata da sempre – anche se esplicitata nella punta teorica di Kundun – da Scorsese). Assurgere a una ‘zona’ che comprende insieme presenza e assenza, dove ci si muove attraverso il caos senza esserne influenzato in alcun modo (di nuovo, non è un caso che, in termini di contrasto, in questo episodio Tsai scelga il paesaggio ‘politico’ statunitense: Washington D.C.; oppure con didascalica ironia ‘lanci’ il camminatore in un museo, ai bordi di una stazione ferroviaria e di una chiesa, per poi riportarlo nei boschi). Il sole sorge, e poi tramonta, da un lato il camminatore rallenta quasi fino a contrastare la ‘vita’ che lo circonda; dall’altro lo spettatore si sintonizza inconsciamente su una diversa lunghezza d’onda che alla fine deve all’oscurità della sala cinematografica uno sporgersi verso l’abisso più ‘naturale’ dell’artificio di una galleria di un museo.