Cosa (ci) resta da vedere?
Il flusso è costante. Parole, immagini, numeri, fatti, grafici, statistiche, macchioline, onde, particelle, fuscelli. Soltanto le catastrofi attirano la nostra attenzione.
Le vogliamo, ne siamo dipendenti. [...] Ogni disastro ce ne fa desiderare ancora, qualcosa di più grosso, di più grandioso, di più travolgente.” (Don De Lillo)
La prima volta che lessi questa frase sicuramente non fui in grado di comprenderla. Probabilmente nemmeno oggi, anche se gli elementi di quel disastro sono sempre più focalizzati in me. Le iniziai a comprendere quando ascoltai per la prima volta un disco. Era il 2000, il momento in cui uscì un album che spostò, definitivamente, i canoni della musica popolare (?) contemporanea, nel (non) luogo del nostro tempo. “Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven” dei Godspeed You! Black Emperor è quanto più vicino possa trovare alle parole di De Lillo come a questa opera abissale e gigantesca di Artavazd Pelešjan. “I am convinced that cinema can convey certain things that no language in the world can translate. For me, it goes back to the Tower of Babel, to before the division into different languages”. Ecco forse quei fonemi, ecco forse quei suoni. Il tutto, nel tutto. Ci si interroga oggi sull’idea più o meno dinamica dell’arte contemporanea, sul ruolo dello spettatore, su cosa sia ancora oggi l’immagine. E se tutte queste domande fossero davvero nulle? Dobbiamo arrivare prima agli elementi di quel disastro, al crollo che lascia appunto solo membrane di comunicazione, brandelli di rumore come di parole, relitti quasi magmatici di ciò che pensiamo ci possa appartenere. Siamo arrivati, proprio in questi giorni, a vivere in un pianeta in cui i nostri compositi (qualsiasi essi siano, anche i tasti che sto battendo sulla tastiera del computer in questo momento) hanno superato le creazioni stesse della natura, umane, animali o vegetali che siano. Una specie di occupazione sistematica del sistema, una colonizzazione forzata di un qualcosa che ci è stato donato (dal Big Bang, da Dio, dal destino o forse solo dal caos/caso). Ecco perché non tanto dovremmo preoccuparci della salute della terra, lei starebbe molto meglio senza di noi, senza dubbio; dovremmo invece porci qualche domanda sul nostro stare qui, su quanto oltre che essere futili siamo sempre più dannosi e autolesionisti..
È possibile che alcuni di questi pensieri abbozzati quanto vagamente deliranti, siano stati alla base del pensiero che il vecchio saggio armeno ha affrontato in questa sua ultima visualizzazione estatica e terminale del mondo. La Nature. L’uomo qui pare essere un mostro, che uccide e scarnifica il suo genitore (pagandone poi tremendamente il contrappasso), ma non con la libertà nietzschiana della dialettica, ma con un accanimento quasi irreale sul suo cadavere, ignorando che è parte stessa di quel gioco. Nel contesto in cui la realtà sfugge in una circolarità funesta su un indefinito spazio-temporale della fine dove è l’antropocene destinato al suo fallimento, Pelešjan innesta la memoria collettiva di un’umanità pronta al suo testamento quasi effimero disordinato e sfuggente, di tragica bellezza estetica. Quasi un automatismo psichico in cui non si può far altro che naufragare, perché quelle immagini forse nemmeno esistono (se mai si possa dire che un’ “immagine” esiste, ma questa è un altra storia). Cosa vediamo è già una rielaborazione del segno di ciò che nel fotogramma è mutato e mutante dalla sua stessa essenza, prima che dall’autore; è la materia che cambia segno, la natura che cambia attraverso il nostro passaggio, lasciandoci a questa drammatica nudità d’anima a cui siamo chiamati. Cosa (ci) resta da vedere?
Apertura, luci e monti. Le note di Beethoven bagnano questi plastici quadri ad alta definizione, liquidi così lucidi, quasi riflettenti nel loro scorrere. Lo scarto/strappo grezzo, una temporalità che invade quella durata che tempo non ha. La prospettiva del paesaggio appare ora quella del passaggio, il nostro. L’occhio è il nostro, l’analogia di questa visione che perde fuochi e qualità, dall’alto verso il basso, ecco l’orizzonte. L’ombra e la prospettiva, eccoli gli elementi del disastro. La violenza dell’eruzione prima delle onde, del loro rumore nero, lo zoom, i pilastri del film come della nostra creazione. Il ghiaccio e Shostakovich, le fratture e le derive, la valanga e la violenza. Rimodellandosi il mondo si/ci fa sentire di esistere, il movimento degli elementi codifica ogni singolo taglio di montaggio. Nel primo quarto, quasi fosse una partita dell’essere sulla fine, la struttura si compie. Poi si modula con il passare dei minuti, slabbrati nella loro densa flagranza di contasti sul bianco e nero. Terra, Aria, Acqua e Fuoco. La natura appunto, come chimica gioca con la sua essenza sconvolgendone forme e direzioni. Così l’immagine dell’oggi, che prolifera e inonda tutto, si moltiplica inesorabilmente creando continui scarti, errori, sbagli. Ecco la variante del virus della visione, sempre più disumano. Ecco l’uomo, nel finale, il crollo delle sue architetture, il suo galleggiamento sui relitti, il suo naufragio. Ma ancora c’è luce, le note di Tigran Hamasyan e il sole trafitto. Fine. In questo universo, galassia, sistema, pianeta sarebbero passati solo sessanta minuti. Una vertigine però che tempo non concede, il pensiero già è dissociato nel cercare un respiro che si possa negare alla visione e possa guardare a quella stella colpita al cuore. Difficilmente capita di vedere un qualcosa di così stordente. L’associazione di estremi senza sintesi, tra noi e il resto, nella impossibilità di un dialogo, la forma delle nostre reliquie mostrano quanto nemmeno più la sopravvivenza possa essere un valore nella presenza della soggettività. Quello che resta dopo qualsiasi accensione, scoppio, esplosione è proprio il vuoto. Esiste un possibile esterno all’universo? Dal profondamente piccolo all’infinitamente grande ogni visione è la stessa, come stessa è la struttura dell’atomo e della galassia, come stessa è la nostra minuscola presenza in questo gran teatro apparentemente infinito. Non si tratta di un discorso della superiorità della natura, capace di far crollare qualsiasi ambizione umana, sarebbe troppo semplice leggerla così. Appare quasi invece come un anatema poetico quest’opera, della prospettiva umana in una storia indeterminata, di immagini strappate al flusso e ricollocate in un altro dalle coordinate sconosciute. Fragili tracce girate nel mezzo della natura, come nel suo tumulto più fragoroso. Il campo emotivo e trascendentale in cui sono tessuti questi minuti è la vera direzione in cui guardare, liberandosi dalla sublime complessità di montaggio distanziato come dal lirismo delle sequenze trasfigurate. Quel campo ci offre l’immagine che tutti, più o meno consciamente, necessitavamo da forse vent’anni, quella che racchiude e annulla tutto. Un velo che copre lo spazio tra occhi e schermo, quasi una radiografia del nostro essere, un elettrocardiogramma delle nostre emozioni, un analisi del nostro io.
“It’s about what I’m striving for, what we’re all striving for - every person, humanity [...] the wishes and desires of the people to ascend, to transcend [...] Distance montage creates a magnetic field around the film [...] Sometimes I don’t call my method ‘montage’. I’m involved in a process of creating unity. In a sense I’ve eliminated montage: by creating the film through montage, I have destroyed montage. In the totality, in the wholeness of one of my films, there is no montage, no collision, so as a result montage has been destroyed. For me the individual fragments don’t mean anything anymore. Only the whole film has the meaning [...] For me, distance montage opens up the mysteries of the movement of the universe. I can feel how everything is made and put together; I can sense its rhythmic movement.” In questa intervista, del 1998, Pelešjan affronta il “suo” montaggio. Quello che sboccia quasi vorticosamente in The Season (1975) dove la distanza dei movimenti è quella che contraddistingue le stagioni della vita; quello che prosegue poi in Our Century (1982) dove la forma di quella distanza diventa spaziale, quella dell’esplorazione dell’ignoto (film spesso incompreso perchè considerato erroneamente storico, laddove l’unica metafisica è proprio quella della atemporalità). Lo stesso del meraviglioso dittico composto da End e Life (1992/1993) che preludeva a un quarto di secolo di silenzi. C’era un treno, un viaggio senza orizzonte fino all’astrazione, al buio di una galleria, stacco; una donna che soffre, un bambino appena nato. Nel rapporto tra il montaggio e la distanza (in/tra esso) – l’evoluzione della lezione sovietica di Kuleshov, Ėjzenštejn e Vertov portata all’estremo del suo lirismo - emerge in questa Nature un’immagine ricorrente indiscernibile dal suo significato, nella crisi del senso di ciò che si osserva nell’atto purissimo (quanto straziante) del vedere. L’errore (fatale) sarebbe davvero quello di porsi qualsiasi domanda su ciò che abbiamo di fronte in quella deriva formale e teorica dell’associazione dislocata di frammenti. Ha ancora senso parlare di semantica? Sempre più lontani da un rapporto di causa-effetto, dalla linearità, dalla composizione. Pelešjan reinventa il movimento - delle cose nello spazio e nel tempo - con una liberissima circolarità dell’emergere d’immagini mentali, evitando le restrizioni ritmiche imposte dalle collisioni e dalla rifrazione dell’essere mondo; un dialogo imperscrutabile tra componente emotiva e tecnica, del suono che espande ancora le traiettorie del fotogramma, della musica che amplia e disloca lo sguardo, in una straordinaria e stratificata multidimensionalità. Ne La Nature sembra quasi che vi sia una trasformazione dell’immagine che neghi il significato, nell’inutilità di chiedersi da che luogo (e che archivio) provenga un video, nella visualizzazione di un’idea dell’universo come sfida stessa al linguaggio, che neghi il montaggio (o meglio, lo distrugga). Questo - commissionato nel 2005 dalla Fondation Cartier (Parigi) e ZKM Filminstitut (Karlsruhe) - è il primo film di Pelešjan che arriva all’ora di durata (stupido quanto subdolo sarebbe parlare di tempo), il primo realizzato con tecnica digitale (senza la fisicità manipolabile della sua pellicola), il primo di questo nuovo secolo e millennio (evidentemente non più il suo, nemmeno il nostro). Eppure ha un’eco lontana. La catastrofe (a partire dal genocidio armeno) può plasmare una visione così personale, e quindi una narrazione, del mondo? Questo viaggio allucinante e allucinato è straordinariamente premonitore del disastro che stiamo vivendo. Noi, nella periferia esistenziale dell’universo, aggrappati all’immagine del disastro, come a quello dell’eterno presente in cui pensiamo di vivere. Ciò che scaturisce dalla memoria, un’illuminazione portante che si modula completamente nell’apertura dell’esperienza estetica offerta dalla forma; schemi e strutture contrappunto del montaggio a distanza, della manipolazione e rielaborazione continua dei materiali (quasi della stessa materia, come oggi solo Godard potrebbe pensare di fare). Nel naufragio delle cose resta forse l’ossessione dell’archivio (della forma disumana in cui esso si compone, ricompone e scompone), quella che colpisce anche colui che sta scrivendo e che al montaggio di materiali sul nulla e l’universo (e viceversa) ha passato migliaia di ore dell’ultimo anno.
Nel terzo movimento, “Static”, di “Lift Your Skinny Fists...” si sente in lontananza un pastore predicare: “And so we have this / You have it in your secret windows / And you’re understanding to understand it and to bring it forth / It takes minute detail / It takes a holy life / It takes emotions / It takes dedication / It takes a death [...] There’ll be prayer on your lips day and night / There’ll be a song of jubilee waiting for your king / There will be nothing you will not be looking for in this world / Except in for your god / This is all a dream / A dream in death”. Quello che forse Pelešjan ci tenta di raccontare infine è una teoria di piani cosmici, nella distanza umana, che possa assorbire il tutto nel suo sguardo empatico sulla nostra condizione, sul nostro mistero; un’idea di avvicinamento e di allontanamento alla vita, nel ritmo del suo movimento sensuale, lirico e mortale. Un processo di ri-memorizzazione, potenzialmente senza inizio né fine, a cui tutti siamo chiamati. L’idea della possibile riproducibilità infinita del piacere estetico nel vedere la propria distruzione, il fallimento di quello che è stato il nostro secolo e nubi ancora più fosche sul successivo, la strana dicotomia della possibile forma conciliatoria di arte e violenza, quasi punitiva, che molte immagini fanno emergere. Non esiste più uno spazio utopico della creazione, forse nemmeno più un brandello d’amore terrestre a cui aggrapparsi, solo la forma indeterminata dell’essere provvisorio ed estremamente fragile. Eccolo il tentativo estremo di Pelešian, quello di creare un luogo intangibile per spazi e tempi, per gravità e per colori, per leggi che appaiono comuni solo a noi mortali. Ecco lo spazio della speranza, eternamente esterno a noi, quella più grande e intangibile. La straordinarietà di questo film deriva proprio dalla sua apparente granitica disperazione, la libertà dell’immortalità della natura viene proprio misurata dalla nostra stessa mortalità, il nostro essere provvisori ci mostra quello che provvisorio non è. E nella nostra provvisorietà sta la bellezza dell’attimo, magari assai limitato nello spazio ma potenzialmente infinito nel tempo, nella memoria liquida del tutto c’è una speranza ancora da dischiudersi.