"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

WORD & IMAGE (2) - JLG from Ecal to Kerala (Jean-Luc Godard)

Monday, 23 August 2021 15:41

Lorenzo Esposito

Ho ucciso un corvo, il tempo è buono ovvero La malattia del cinema

 

La leggenda vuole Jean-Luc Godard, giovane critico, dissolversi e riapparire da una sala all’altra, assorbire i film a pezzi su una curva infinita e continuamente cangiante. Da qui nasce forse la sua riflessione ininterrotta sulla labilità della memoria non solo dello spettatore di cinema ma che i film hanno di se stessi, cambiando ad ogni rivisione e imprimendo nella memoria stessa un accordo tra le immagini mutato oppure imprevisto oppure fino a quella visione in qualche modo mai visto1.

La svolta degli anni settanta lo vede scivolare con destrezza e rigore tra pellicola e nastro elettronico, specificando però che si tratta di un viaggio tra suono e immagine, inevitabile per chi, prima scrittore poi cineasta, ha sempre trattato la parola e l’immagine (il documentario e la fiction, la fiction e il documentario: qui le cose si confondono meravigliosamente) come astri di un’unica costellazione dove scorrono, attratti dall’orbita misteriosa del cinema, accordi e disaccordi sonimage.

JEAN-LUC GODARDTutto questo è sempre stato sintomo di una predisposizione, poco approfondita, a inoltrarsi nel non-sapere. Godard si appassiona a ciò che non conosce, o meglio a ciò che continua a rivedere (e a riguardarlo) e che a prima vista non riconosce. L’immagine non si riconosce, e non si può conoscerla se non reiterando le possibilità infinite di questo non sapere. Spreco, dissipazione. La dissipazione però è ben altra cosa dall’isteria odierna di cosiddette immagini e di cosiddette informazioni. Come direbbe Bataille è, al contrario, la trasformazione di un’energia in un’altra, esplorazione di dimensioni segrete e meno visibili per opporsi a formule assolutorie e sistemi assolutisti basati tutti sul concetto di utile, o meglio su ciò che viene considerato utile per i popoli (esempio fin troppo attuale: per convincere la popolazione a vaccinarsi, essendo incapaci di parlare, di mostrare, gli Stati fanno leva sul capitalismo che è in noi, minacciando la rottura delle abitudini di consumo: senza ‘green pass’ - che orribile insulsa oscena formula: il verde è degli alberi e dei prati - non si va al ristorante. Ma, attenzione, neppure al cinema, finalmente assimilato al cibo ma non secondo secondo la vertigine pantagruelica e surrealista che accomuna Buñuel Ferreri e Ruiz2: no, qui i “cadaveri putrefatti”, nell’idea e nelle intenzioni dei governanti, sono solo gli spettatori).

Così Godard di recente dissipa, cioè trasforma energia in forma di conversazioni-fiume, la prima in diretta su Instagram con un professore dell’Ecal, la seconda in collegamento video col Festival del cinema del Kerala in India. Entrambe a loro volta trasformate in un gioco di continuo rilancio tra il supposto statuto di custode del sapere che profetizza come un vate e l’eterno portatore di parola e immagine che, all’atto pratico, non ricorda mai bene, che risponde alle domande ponendone di ulteriori, che anche quando decide di essere assertivo subito dopo si chiude in se stesso, ritorna su quanto detto, riannoda ciò che sembrava una volta per tutte sciolto.

E che parla di virus. Più precisamente di malattia. Più precisamente di film e autori che affrontano certe malattie (L’orgoglio degli Amberson: la malattia della famiglia; Arsenal: la dissoluzione dell’Unione Sovietica). Più precisamente la malattia del cinema. Il cinema, i film sono una malattia. Se ce ne preoccupiamo, dice Godard, è perché ci preoccupiamo della realtà. “Cos’è la realtà? E come si può fare per afferrarla come per esempio facevano i fratelli Lumière?” (Kerala). “Perché Niepce quando inventò la fotografia voleva fare una copia della realtà, quali erano le sue vere intenzioni?” (Ecal). Impossibile non preoccuparsene se la realtà - e dunque parola e immagine - è costretta quotidianamente a difendersi dal virus dell’informazione il quale, a sua volta, è strettamente collegato all’altro virus, quello oggi più chiacchierato, dove più il tempo passa più ogni singola parola perde senso e non c’è immagine di speranza ma solo ipotesi di controllo. Godard, sul Covid-19, pone giustamente domande che concernono la lingua3, denunciando l’assoluta assenza di vera informazione. C’è questa scoperta del lavoro retroattivo di certi vaccini. Ecco, l’informazione va troppo poco indietro, c’è troppo poco dialogo, nessuno fa attenzione. Vedono che il virus si propaga e nessuno pensa che possa arretrare. È il capitalismo: tutto è sempre e solo progresso (si fa per dire), crescita e dunque l’unica informazione che passa è che il virus si propaga4. “Ti fanno vedere un diagramma e dicono che è una curva”, ma una vera curva ha delle discese non solo picchi. “Il linguaggio equivoca tutto. Non credo nel linguaggio, bisogna cambiare l’alfabeto, ci sono troppe lettere, bisogna toglierne qualcuna” (Ecal). Come fecero alcuni grandi pittori ai tempi della nascita della fotografia..

Ma Godard insiste. “Anche del cinema non conosciamo molto”. Qui, con gli amici del Kerala, si preoccupa davvero, hanno rivisto l’inizio di Arsenal di Alexander Dovzhenko? Si rendono conto? Ha ragione, rivediamo i primi dieci incredibili minuti. Cosa si vede? Cosa rivediamo? Un filo spinato sotto un cielo grave che incombe. Ieratiche figure di donne in piedi in case vuote o a testa bassa con le braccia penzoloni e lo sguardo vitreo davanti a delle baracche costruite nel nulla. Un treno in corsa che trasporta veloce come il vento uomini addormentati in guerra o che forse li riporta a casa senza più anima. Esplosioni. Trincee vuote. Un reduce con le stampelle inseguito da una bambina. Un poliziotto che passando molesta una donna strizzandole i seni senza che lei mostri alcuna reazione. Una donna che semina il grano da sola su un campo immenso e sviene per la fatica. Una madre che batte il suo bambino affamato e in parallelo un contadino che batte il suo asino affamato. Militari in silenzio, uno di loro scrive un diario: “12 settembre. Ho ucciso un corvo. Il tempo è buono.” Una fabbrica di armi. L’assalto di un battaglione che esce dalla trincea. L’effetto del gas esilarante su un soldato. Soldati morti in un ghigno (tutto questo è prima o dopo?). Le didascalie sono minime, appena allusive, parlano di madri figli e di una guerra che c’è o che c’era. Il film avanza ad ampie folate e talvolta si sofferma per riprendere una scena lasciata indietro. Il film è muto e, senza parlare, mostra tutto, invita alla comprensione di tutto, la “dissoluzione” già in atto di un paese intero, il documento definitivo con cui la realtà può essere immaginata e messa in immagini.

Ecco perché Godard, quando parla di virus, sostiene che non è interessante sapere come si distribuisce (questo interessa solo chi ritiene che la conta quotidiana dei morti sia una notizia) ma come si produce. Perché è in questo grumo osceno originario che risiede il non conosciuto, “l’aspetto combinato di documentario e fiction”. Come liberarsi da questo rumore assordante? È possibile filmare, dare un’immagine del silenzio (questo uno dei momenti in cui è Godard a incalzare il proprio interlocutore)? Per esempio neve che cade sull’acqua, dice Godard dalla Svizzera al Kerala. In questo numero di “film parlato” si trovano altri silenzi molto vicini in Nabokov (di nuovo il popolo russo che viene lasciato al freddo “in un velo di neve lenta”) e Ozu (la pioggia da questa finestra, la pioggia altrove). Quello che ci accade, come donne e uomini, è l’esatto contrario di quello che viene comunicato dall’informazione, è il contrario della separazione - documentario e fiction, parola e immagine, nazione e nazione - sono accordi lunghi e improvvisi, parti di noi qui e altrove, che continuano qui e altrove.

Come mostrare tutto questo? Cosa vuol dire inquadrare? Probabilmente oggi Godard è rimasto uno dei pochi a chiederselo. Sia chiaro, nessuna morale, però una precisazione minima che fa la differenza. Tutti inquadrano, o meglio nella maggior parte dei film c’è sempre ben visibile qualcuno che inquadra e mai qualcosa che proviene dall’interno dell’immagine perché è stato davvero inquadrato, cioè liberato e rilanciato altrove da qualcuno che è a sua volta sparito.

 

 

1 L’inconscio, l’inconscio: Godard nelle Histoire(s) lo dice chiaramente che quella di Hitchcock è forse la vera immagine, l’immagine perfetta del cinema. Non a caso poi Hitch è da lui stesso pochissimo citato e oggi curiosamente quasi rimosso, sempre meno centrale nei discorsi sul cosiddetto cinema contemporaneo, il quale a sua volta, in quanto ‘contemporaneo’, o addirittura presente, è una contraddizione in termini, non esiste, per lo meno non nella dimensione (inconscia) in cui Hitchcock stesso si è installato.

2 Vedi in questo numero il diario di Ruiz letto da Arturo Lima, dove si parla continuamente di cibo e di “cadaveri putrefatti”.

3 Come ormai sappiamo, la lingua nella concezione di Godard (ma anche per esempio in quella di Straub oppure in quella di Rousseau: si veda l’articolo in questo numero), precede il linguaggio, è la voce che parla la lingua, proprio la lingua nella bocca. Nulla a che fare col linguaggio che, in quanto combinazione di parola e immagine, ne è in qualche modo lo svilimento, il sintomo di una più larga e complessa decadenza e al tempo stesso una possibilità. Ma il vero grado zero può essere raggiunto solo dalla lingua che, in quanto tale, parla dell’inutile, dell’osceno, si suicida (e anche con JLG ritorniamo a Carmelo Bene).

4 Ancora il diario di Ruiz: “Dio è un virus”

 

 

 

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