Hiroo Onoda, conquistatore dell’inutile
"I should be all alone in this world
Me, Steiner and no other living being.
No sun, no culture; I, naked on a high rock
No storm, no snow, no banks, no money
No time and no breath.
Then, finally, I would not be afraid any more."
(Robert Walser / Werner Herzog)
Planica, Slovenia, fine marzo (quando questo pezzo è stato, in un certo senso, cominciato). Come ogni stagione ci si dà appuntamento sul mostruoso Letalnica per l’ultimo giorno di scuola nel salto/volo con gli sci. Uno sport strano, per tanti assurdo, per altri (come me) il gesto umano che più si avvicina forse all’assoluto. La metafora del salto è un po’ quella della vita. Si può staccare in maniera possente e brusca dal dente del trampolino, cercando una grande verticalità a discapito della velocità sul gomito o decidere di gettarsi nel vuoto assumendo una posizione estrema, favorendo la direzione e sperando in un cuscino di vento frontale che possa portarti più in là. Verticalità o direzione, scegliere un qualcosa o lasciarsi trasportare dal destino? Walter Steiner era per tutti un volatore sublime, assolutamente folle e dal coraggio inimitabile, unico nel panorama di quegli anni; a lui non interessava minimamente vincere ma solamente poter volare per più secondi possibili, il più a lungo possibile. Pare ancora di vederlo Herzog proprio a Planica, quasi da telecronista sportivo, a narrare le gesta dell’intagliatore svizzero. L’estasi nell’aria, l’avvicinarsi a quella regione sconosciuta della morte, il rallentamento di quel gesto così puro e plastico da consegnarlo all’eternità; mentre su tutto sempre regna, e regnerà, la fragilità della vita umana nel caos della natura. Dopo il folgorante balzo di Anze Semenic, che raggiunge quasi il quarto di chilometro, finisco di leggere questo breve libro dedicato all’ultima anima - per ora - incontrata nel viaggio infinito di Herzog attorno alle storie del mondo, Das Dämmern der Welt (Il crepuscolo del mondo). Proprio come Stenier, Hiroo Onoda, si sente conquistatore dell’inutile, come Fitzcarraldo percepisce in sé il senso compiuto di un’impresa impossibile, come Aguirre vive all’interno della sua anima la pulsione dell’ignoto e come Stroszek lascia che il suo segno di vita rimanga legato a un nemico oramai invisibile e svanito, nel turbine di ossessioni fermamente metafisiche e assai romantiche.
A ritroso appunto, dalla fine del 1974 - l’anno in cui uscì il capolavoro herzoghiano su Steiner, quello successivo ai voli di Planica - quando anche la questione del Vietnam appariva oramai in dirittura d’arrivo. In una notte assai casuale il nostro Onoda - rimasto sull’isola filippina di Luban - si trova di fronte a un viaggiatore che scambia per un soldato americano. Quasi tre decenni erano passati dalla fine del conflitto ma lui per sempre ha pensato che quella guerra dovesse ancora esistere. Quell’incontro è, forse, scritto nel destino; il primo a incrinare seriamente le certezze del nipponico reticente, fino a quel momento, al pensiero che tutto potesse essere finito (anche quando gli fu comunicata in vari modi la resa del Giappone - dopo le atomiche statunitensi - lui viveva nella ferma convinzione che ogni messaggio fosse una trappola). Il nemico c’era, c’è stato e sempre sarà, lo stesso invisibile di Stroszek appunto, quello che impone a un samurai di stare ancora in trincea a difendere la propria posizione anche se i bombardieri che sente sulla testa sono ormai diretti forse in Corea, o in altri territori contesi del sud-est asiatico che tanto in quei decenni soffrì. Quella guerra non è più la sua. Eppure ogni guerra è diversa, e tutte le guerre sono uguali a se stesse (che strane parole, dette oggi, proprio oggi). Quella di Onoda, nella sua soggettiva continua, è singolare e non vive più di alcuna materia universale, così irrilevante e inutile da riflettere una tragica bellezza esistenziale. Scorrono così gli eventi in un enorme flashback trentennale di frammenti che si sovrappongono confusamente, sguardi sul vuoto della solitudine nel combattere in uno spazio e un tempo indefinito. Alla ciclicità delle cose, al giorno in cui il comandante che lo assegnò a quella battaglia - l'unico che mai avrebbe potuto farlo desistere da quella missione - revocò l’ordine. Onoda così, inginocchiato dall’emozione, sarà un uomo libero. Ne siamo sicuri? Ma da cosa poi?
In questo incredibile viaggio a ritroso si innesca la minimale quanto vorticosa e fluida scrittura di Herzog, un viaggio pieno di visualizzazioni materiche e crepuscolari, che regala fisicità alle emozioni di Onoda nel suo vortice delle cose. Un’ode all’essenzialità della parola e al rigore di un protagonista così astratto nella sua/propria (auto)rappresentazione stilizzata dalla penna asciutta di Herzog. Pare già quasi montato questo centinaio di pagine, si intravedono i movimenti di macchina, le pause degli stacchi, i campi lunghi, i primi piani. C’è sempre l’uomo al centro e la sua unica capacità di autoconvinzione nei confronti del reale, delle evidenze, di ogni atto provvisoriamente compiuto. Un detour cognitivo che lo fa apparire quasi animalesco nella sua condotta quotidiana ma invece umano (troppo umano) nel senso puramente herzoghiano (e relativista) sul come ogni battaglia può avere una sua legittimità; come d’altronde ogni salto e ogni scalata, ogni esplorazione possibile, costruisce il senso della nostra vita (laddove il senso in essa non pare poter esserci). Come dimenticare il ritorno di Messner da quella doppia impresa sul Gasherbrum, quel disegno sui crinali della montagna e quell’invito a camminare assieme fino alla fine del mondo, al crepuscolo di esso? Come non ricordare l’epopea di Treadwell e la sua simbiosi prima con l’orso e poi con lo stesso pensiero di Herzog, che si ritrova in moviola a montare tutto quel materiale ormai orfano? Il dilemma di Herzog così diventa universale, cosa resta nella nostre anime della peripezia di Onoda, come di Stroszek, Steiner e di tutti gli altri? Scriveva una volta il saggio bavarese di come la nostra civiltà fosse un esilissimo strato di ghiaccio in fragile equilibrio sopra un oceano profondo di caos e tenebre. Tutta una questione di luce probabilmente, quella di anime che illuminano con i loro atti, con la loro fisicità idealistica, tutto questo vuoto d’oscurità donandoci una prima invisibile profondità di visione del mondo, e in un certo senso della comprensione di esso.
Herzog continua la sua dialettica infinita tra natura, individualità e storia. In tutto questo l’umanità risulta un elemento verso cui l’universo prova una certa indifferenza (quasi in senso nietzscheiano), e il nostro significato nel mondo è dunque una costruzione di senso legato all’atto, al forgiarci consapevoli dell’oblio che ci attraversa. Una continua conquista dell’inutile, insomma, donchisciottesca seppur così vitale e inevitabile. I soggetti di Herzog pulsano di fantasia come di disperazione, vivificano la loro individualità attraverso l’estetizzazione della sofferenza, per trovare nella storia una forma di trasfigurazione dell’eterno presente in cui sono/siamo condannati. Provengono dallo ieri, lottano contro l’oggi, verso il conformismo e la superficialità del tutto, senza un domani, con una folle energia dinamica che insegue un’utopica estasi del reale. Una forma di comprensione - anche dell’esperienza di Onoda - è l’accettazione della transitorietà della vita umana nella natura, la sua imprescindibile caoticità in cui abbandonarsi a esperienze percettive di stupore e ammirazione per lo svolgersi del mondo nel tempo. Un discorso legato anche al rapporto con il linguaggio, all’accettazione della pazzia metafisica (quella che Kant spesso trova futile, quasi dannosa, ma così terribilmente necessaria; quella visualizzata nello splendido finale di Herz aus Glas), alla percezione di immagini - qui già visibili nel testo - che segnano la provvisorietà stessa degli esseri umani nell’automatismo sfrenato con la vita animale e il moto della natura. L’umanità herzoghiana è presenza quasi mostruosa, aberrante e inquietante, la cui redenzione è possibile solo per i folli che intravedono qualcosa oltre l’orizzonte, quel destino che pulsa nel respiro infinito della verità estatica, nel vivere pienamente come “agenti attivamente intelligenti ed emotivamente reattivi”. Onoda, nella sua totale e vergine e pura inconsapevolezza, incarna i caratteri di questo spettro d’umanità che già guarda altrove, slegata da ogni relazione spaziotemporale.
“However, we also gain our ability to have ecstatic experiences of truth through the Sublime, through which we are able to elevate ourselves over nature. Kant says: The irresistibility of the power of nature forces us to recognize our physical impotence as natural beings, but at the same time discloses our capacity to judge ourselves independent of nature as well as superior to nature… I am leaving out some things here, for simplicity’s sake. Kant continues: In this way nature is not estimated in our aesthetic judgment as sublime because it excites fear, but because it summons up our power (which is not of nature)". In questo frammento (tratto da "On the Absolute, the Sublime, and Ecstatic Truth", 2010), Herzog incarna non solo i pilastri del suo cinema, della sua ricerca in moto perpetuo, ma visualizza in modo incontrovertibile il suo Weltanschauung (originale e intraducibile, non solo a livello linguistico). Onoda condivide questa estasi, la sua impotenza di fronte alla natura (e dunque alla sua declinazione umana, la storia) e il nostro potere di trasfigurarla. Torniamo dunque al finale del libro (che si chiude, ciclicamente, a quel 1974 di partenza), alla presunta libertà del nostro Hiroo, la “tempesta interiore” che infuria nella sua anima al momento della propria personalissima resa, non tanto legata alla guerra, ma a quella ben più pesante verso il crollo del senso di una vita intera passata in una missione dove nessun presente può esistere. Non sarà libero, ma sarà vuoto l’Onoda fuori da quella foresta. Torniamo a Steiner infine, a colui che la foresta la vedeva dell’alto palesarsi sotto i suoi sci, quei pochi secondi di volo paragonati ai quasi trent’anni del soldato, quella missione da compiere in un territorio sconosciuto ed estremo. La tempesta del giapponese è la stessa dell’intagliatore svizzero, una pulsione che deriva ancora dal romanticismo e ci porta a pensare che possa esistere un’altra realtà intangibile e irriducibile, che dona magicamente un valore imprescindibile alla nostra fugace e futile esperienza su questo pianeta. Vedere e sentire oltre il crepuscolo, del mondo, di noi.
P.s. il salto/volo più lungo dell’anno https://youtu.be/JsMSFPHFjWA (Planica, 25/03/2022)