"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

INTERZONE - Diario, Notas, recuerdos y secuencias de cosas vistas (Raúl Ruiz) - PARTE 3

Saturday, 11 March 2023 00:26

Arturo Lima

Commentario al Diario. Notas, recuerdos y secuencias de cosas vistas di Raúl Ruiz

 

 

Da quando esiste questa rivista non c’è nome che ricorra più di quello di Raúl Ruiz (scritto alla cilena). Se c’è un pensatore del secolo scorso (e in parte di questo) che in vita giocava e teorizzava le possibilità dell’incompiuto e del postumo, questo è Raúl Ruiz. Un nume tutelare certo, ma soprattutto un indirizzo di studio, un’attitudine che condividiamo nel leggere nel vedere e nello scrivere. Ne condividiamo soprattutto l’ossessione, l’inseguimento dell’immagine, la trasformazione della parola. L’esigenza di tornare continuamente sui propri passi per compiere ulteriori acrobazie e, come direbbe Calvino, mettendosi tutte le volte nuove braccia e nuove gambe.

 

Continua su questo numero la lettura (più volte rimandata alla ricerca della resa migliore: che, ruizianamente, non c’è e non può esserci) dell’opera-fiume più sottovalutata degli ultimi anni: Diario. Notas, recuerdos y secuencias de cosas vistas. La lettura, non l’analisi si è detto, il commentàrio in forma di ekphrasis (dunque anche prima rapsodica e parzialissima traduzione italiana).

 

Diario. Notas, recuerdos y secuencias de cosas vistas sono due ingenti volumi usciti solo in Cile nel 2017 (Ediciones Universidad Diego Portales) che raccolgono i diari di Ruiz dal 1993 al 2011, pochi giorni prima della sua scomparsa. Come spiega il filosofo cileno curatore dell’uscita Bruno Cúneo, ingaggiato da Valeria Sarmiento nel 2014, si tratta di 25 quaderni (si registra lo smarrimento di almeno altri dieci durante certuni ‘voli’ ruiziani fra taxi e aerei), 3500 pagine manoscritte da cui viene tratta questa edizione in due volumi di 1200 circa.

 

Via via risulterà chiaro a chi ne conosce l’opera ma anche a chi desidera riattraversarla o affrontarla per la prima volta, che questo testo monumentale non è solo un diario intimo. Il titolo del libro prova con buona riuscita a individuare alcune delle diramazioni, eppure non siamo che all’inizio di un dispositivo letterario autonomo che corre parallelo ai film che si fanno e da farsi, ai libri letti e riletti, alle conversazioni e ai piccoli eventi quotidiani, alle note paesaggistiche e a quelle culinarie in un continuo rilancio reciproco di parola e immagine. Diario di vita e diario dei film. Diario delle letture e diario dei sogni. Cronaca degli amori e cronaca di un amore. Elenco dei testi e dei sottotesti. Anticipo degli scritti poi raccolti sotto il titolo Poetica del cinema. Infine, pura sperimentazione filosofico-letteraria: tra il 2001 e il 2002 Ruiz decide di scrivere contemporaneamente il diario e un diario parallelo…

 

Buona lettura.

 

 

Parte 3: 1995 (I parte: gennaio-aprile)

 

Legge e rilegge Breviario di estetica di Croce. Gli interessa la definizione di arte. Alle quattro ipotesi crociane (forma, piacere, strumento per fare filosofia, strumento che trasmette valori etico-politici), Ruiz ne aggiunge una quinta: l’arte come gioco, o meglio: “una tecnica per trasformare il mondo in un sistema di giochi”. (Immaginiamo le immagini che mostrano questo mondo di giochi come un ulteriore sistema di lapsus, depistaggi, giochi semantici, scene che si generano una dall’altra, e forse avremo un’idea dell’opera e del pensiero ruiziano).

 

Favoleggia la realizzazione di una telenovela in “72 capitoli di un’ora che si susseguono in rigoroso ordine cronologico, dando vita a tre giorni interi” (nel 1990 aveva lasciato incompiuto il capolavoro recuperato nel 2017 intitolato (La Telenovela errante).

 

Si intestardisce a decifrare la partitura della Suite lírica di Berg, con annessa lettura della tesi di Adorno che lo vede come “maestro della transizione infima”. Gli interessa perché, dice, questa definizione è applicabile al cinema, dove, attraverso il rapporto fra continuo e discontinuo “si può costruire una teoria generale”. Letture legate a queste riflessioni: L’eloquenza dei simboli (versione italiana) di Edgar Wind e Mezzi senza fine di Giorgio Agamben. “Dire una cosa e intenderne un’altra”. (Non lontano da Godard).

 

In viaggio: Francoforte-Taipei-Bangkok. Legge Hans Magnus Enzensberger e Emir Abdelkader. Testi apocalittici. Ruiz riflette sulle guerre civili, su tutto quello che è insieme concreto e astratto nel loro originarsi.

 

Legge Breve historia de la filosofia china di Fung Yu-lan ed è molto colpito dal metodo basato sull’assenza di metodo. “Essendo astorica, non può avere evoluzione, però ad evolversi sono i testi che la commentano”. (Questo viaggio in Oriente servirà a Ruiz, come la succssiva permanenza in Toscana, per girare il corto Wind Water (Feng Shui) - parte di una produzione BBC che annovera corti di Schrader, Denis, Egoyan, Zanussi, Maddin, Turner: a partire da Las meninas di Velazquez un dialogo tra vento e acqua, tra Oriente e Occidente).

 

A Taipei tutti gli ripetono che lì il suo cinema è molto conosciuto. Commenta: “L’ho già sentito a Palermo e ad Atene. Le periferie mi sorridono, ma esistono periferie?” Intanto, anche in Cina riflette sul Cile. “Un principio di Confucio dice: con gli uomini lealtà, con lo spirito sincerità. Ragionevole, la sincerità infatti è volubile e la lealtà stabile. Ho l’impressione che noi cileni facciamo esattamente il contrario”.

 

Lunedì 13 Marzo. Pasto ‘frugale’: pollo con zenzero, anguille fritte, bietole cinesi, ravioli, peperoni saltati in padella con peperoncino e soia, zuppa con polpette di carne e riso. Gli spiegano che un pranzo con meno di quattro portate è impossibile. Incontra il famoso scultore Ju Ming. Lo riportano a cena. Finisce la giornata in un pub a bere vodka mentre sullo schermo passa Casablanca e si ascolta musica di Milt Jackson. Ma Ruiz pensa a tutt’altro: “Questa mattina mi sono svegliato molto riflessivo. Penso a un saggio di bricolage cosmologico, per mettermi nella testa dei fondatori del mito. Un mito nasce da una conoscenza che si nasconde in una storia (per ragioni, in generale, memotecniche) o da una battuta che ci fa ridere, poi ci terrorizza e infine ci fa piangere. Esempio: quando Melville ascolta per la prima volta la storia della balena bianca nell’isola di Mocha (Cile, El Fuerte de Valdivia), il mito non è altro che un brutto scherzo. Dicono i cacciatori di balene: “Siamo talmente cativi che nessuna balena può scapparci; se una balena ci sfugge, vuol dire che è più cattiva di noi e lo si può capire dai suoi capelli grigi”. Tutti ridono. Allora Melville vede letteralmente il male nel bianco e non nel nero (terrore) e decide che il destino dell’uomo è quello di vagare per il mondo alla ricerca del male per annientarlo (e affascinato da esso), senza alcun risultato (pianto).

 

Taipei-Bangkok-Amsterdam. Legge l’ultimo volume della trilogia cyberpunk di William Gibson. Ruiz nota quanto gli scrittori di fantascienza contribuiscano alle scoperte scientifiche (“Arthur C. Clarke i satelliti, Asimov il telefono e la TV, Gibson appunto il cyberspazio”), ma soprattutto gli piace, rispetto a quella che chiama “saturazione delle informazioni” la nozione di Gibson di “allucinazione consensuale”. Nel frattempo sull’aereo vede “i primi occidentali da una settimana”.

 

Insiste a rileggere Croce. “Riletto più e più volte, mantenendo intatte la sua antipatia e la sua lucidità, ma non è giusto (Borges dice: non produce la minima replica o la minima convinzione). E non è nemmeno vero. La critica alla distinzione tra espressione nuda ed espressione vestita non è falsa, come egli ritiene, a condizione che si distingua tra abito, come descrizione o configurazione della forma, e ornamento (bellezze del barocco). Aggiungerei tra abito-descrizione e abito-commento (che enfatizza la forma nascosta). D’altro canto l’idea di espressione si è degradata. Ora, quando si parla di espressione, si pensa più a un calcio nel ventre (ovatta) o a un pugno nel muso che al simulacro della nudità (la riduzione a tratti essenziali). Quest’ultima idea mi ricorda gli impulsi proto-industriali del Bauhaus: funzionalità=bellezza. Tra l’espressione strumentale e quella floraison c’è un abisso (Blake: l’esuberanza è bellezza). D’altra parte, cosa significa riduzione agli elementi essenziali? Diserbare un campo pieno di erbacce con troppo entusiasmo ci farà estendere l’idea che abbiamo delle erbacce e ci ritroveremo con un giardino giapponese, cioè senza piante, il che per un ‘giardiniere dell amore” come me è triste.

Non so perché quando si parla di espressione mi ricordo sempre di don Alfonso Reyes e il suo elogio della merda parigina. Sarà perché per i francesi qualcosa è espressivo quando ha a che fare con la merda (che non è altro che un modo per accettarsi così come sono, intendo letteralmente). Tutto ciò mi ricorda il trattato di Kant sulla merda, in cui distingue tra dodici categorie trascendentali di merda (è il caso di dirlo, gli huasos dicono “X trascende le gambe”). Mi sta venendo appetito. Spero che ad Amsterdam potrò trovare le aringhe crude e un buon bicchiere di nuovo gin (anche se sono le 9 del mattino, però a Taipei sono 17)”. (traduzione necessaria e integrale di questa pagina mirabile del diario).

 

18 e 19 Marzo. Pisa, poi Maremma. C’è un piccolo Festival. Negli incontri nota un’ondata di spiritualismo che per Ruiz è segno di profonda crisi politica (“ma l’Italia vive in uno stato di crisi permanente”). Di notte legge un piccolo testo di Pierre Duhem pubblicato nel 1908 intitolato To save the Phenomena. “Qual è l’oggetto della fisica? Spiegare o descrivere? Dare un’immagine ristretta del mondo, un’immagine provvisoria della realtà, di cui solo la metafisica può dar conto”. Chiosa: “ieri sull’aereo, leggendo il testo di Panofsky sul pensiero estetico di Galileo. mi imbatto “in questa perla: Galileo era incapace di comprendere Keplero, non per mancanza di perspicacia né per pregiudizio estetico: vivendo in un periodo di piena irruzione del manierismo, Galileo, che sull’arte era un conservatore, amava il cerchio e odiava l’ellisse. Allo stesso modo amava Ariosto e odiava Tasso”.

 

I progetti e le idee si moltiplicano. Alla fine lavora a una sceneggiatura di El pecador justificado e a un’altra intitolata Che. Discute con Pascal Bonitzer una sceneggiatura da Dios se lo pague. Branco insiste per girare Tre vite e una sola morte. Gli americani gli propongono Shattered Image e vorrebbero come protagonista Kim Basinger (il film sarà poi del 1998 con Anne Parillaud). Quando però i finanziatori vedono i film di Ruiz vanno nel panico. E tuttavia firma il contratto con Hollywood “che mi permetterà di arrivare fino all’anno prossimo”.

 

 

 

Intervista per Radio France condotta da Michel Ciment. Poi vanno a pranzo insieme. Ciment gli dice, in gergo cinematografico, “ti hanno dato la carta” che significa che non è ben visto. E aggiunge: “A Chabrol ogni anno la danno e poi la tolgono. Rivette ha la carta permanente”.

 

Parla con Mastroianni al telefono: l’attore gli dice che sarebbe molto felice di lavorare con lui.

 

Domenica 9 aprile. Un sogno. “In volo. Notte placida con sogni di maionese, quel tipo di incubo che mescola elementi per comporre nuovi materiali. In questi casi si direbbe che le immagini hanno un corpo e che questo corpo è una miscela del corpo liquefatto e delle anime in sospensione. Una zuppa densa, senza impurità. Nel mio sogno, il centro era nella pancia e la mia testa, separata dal corpo, era rimasta attaccata come una patella al sedile dell’aereo. A quanto pare eravamo in viaggio per Parigi. Tra i passeggeri c’era una grassa “anima della festa” che incitava un gruppo di passeggeri napoletani in viaggio per un matrimonio. Ero coinvolto in una conversazione, ma la conversazione era un altro corpo di cui ero un tentacolo. Il cantante passava il piattino (ma la sua mano e il piattino stesso erano parte di me). Contro le mie abitudini, mi rifiutai di dargli la mancia. Allora lui, senza smettere di scherzare con gli altri passeggeri (ma io stesso con lui), mi mise una mano in tasca e mi rubò buona parte dei miei soldi. Io lo insultavo e ascoltavo la mia voce, una voce debole e acuta di cui soffro da qualche giorno. Gli dicevo: “Nel mio paese quelli come te non esistono perché li uccidiamo”, ma la mia frase si colorò e prese peso e da quel peso emerse Matteo Bavera, un grande amico siciliano, sposato con una napoletana, e naturalmente si pentì di essere stato così scortese. Poi tutte le figure si sottomettevano al suono, al rumore dell’aereo, da cui emergevano voci confuse, anodine, ripetitive, e una frase musicale, ripetuta più volte, ha iniziato a girare intorno ai miei corpi”.

 

Legge: L’enfant de la haute mer di Jules Supervielle e The Invention of Solitude di Paul Auster. In volo tra São Paolo e Sntiago, leggendo l’elogio funebre di Joseph Needham morto a 94 anni, si augura che qualcuno faccia una nuova edizione dei suoi libri sulla scienza e l’arte nella Cina antica. Poi si sofferma di nuovo sui racconti di Supervielle e riflette: “Cosa distingue un autore per bambini da un autore naïf? È chiaro che nel percorso di costruzione del ponte che conduce all’infanzia si rendono necessarie diverse strategie di introspezione. Ponti, aerei, barche. Risalire il fiume della vita come un salmone, a balzi, o semplicemente camminare seguendo le frastagliature della riva. Il valore narrativo di un’immagine, per quanto arbitraria possa essere, è il suo carico di prove, e le prove non dipendono sempre dal buon senso. Un’immagine come quella di questa storia: una città del nord, che galleggia nel mare, il cui unico abitante è una bambina di undici anni. Poi le conseguenze narrative dell’immagine: la bambina vive come tutti i bambini; va a scuola, gioca, va a letto alla sua ora, va in chiesa, russa, non ha nulla da mangiare. Ma ignora che il resto del mondo esiste. Poi lo sviluppo: un giorno passa una barca e lei scopre la sua solitudine, vuole morire e un’onda la porta via, ma lei è immortale. E infine la soluzione: fu creata da un marinaio che aveva perso la figlia e che una lunga notte, in mare, pensò a lei con una cupa insistenza e la fece nascere in mezzo all’oceano”.

 

11 aprile. Cena con un vecchio amico che sta morendo di cancro. Alla fine della cena l’amico accetta dalla sua compagna la dose di morfina necessaria a lenire il dolore. “Cordialità e pudore”. A fine serata si imbatte in una “frase sorprendente di Georg Simmel: decidere di credere in Dio significa decidere che esiste dentro di noi una funzione Credere in Dio”.

 

Poi: “Ho il titolo del mio prossimo film (quello con Mastroianni): Tres vidas distintas y una sola muerte, il cui epilogo si intitola “Cinque pari”. Insomma, quattro storie di doppia vita, recitate dallo stesso attore, che alla fine, messe insieme in un montaggio sintetizzato, fanno un quinto film. Lo sfondo è quasi infantile: ogni uomo vive molte storie e ognuna di esse occupa l’intera vita. Ma una cosa è vivere la vita e un’altra è recitarla. La rappresentazione è breve e in essa convergono tutti i fatti reali e possibili. Appena finisce, ne inizia un’altra in cui i fatti della vita vengono ricomposti, un’altra rappresentazione di una nuova storia immortale.

Ancora una volta il tema: Amleto fa colazione il giorno della sua morte? Altre domande: quante morti vive l’uomo, in quale delle vite muore veramente? Cosa significa: il protagonista è l’unico a non essere consapevole della propria morte. Luoghi comuni da evitare come i tori di Pamplona”.

 

20-23 aprile. Gita fantasma in Cile. Discussioni per pubblicare Poética del Cine I. Comincia a scrivere El Transpatagónico. “Arrischiamo un’ipotesi. Vediamo sia dall’esterno verso l’interno che dall’esterno verso l’interno (questo è relativamente verificato, anche se i dettagli di come funziona sono ben lungi dall’essere compresi). Immaginiamo che gli stimoli esterni siano organizzati in due tipi di insiemi: paesaggi e proiezioni. I paesaggi sono insiemi compatti che vengono solo contemplati. Le proiezioni sono cornici che possono essere inserite. Ogni movimento verso il set lo modifica e genera nuove proiezioni, mentre il paesaggio provoca immobilità. Questo non significa che non si possa camminare verso un paesaggio o che una proiezione ci immobilizzi a causa della sua incoerenza, del suo eccesso di suggestioni o della sua inerzia. Ci deve essere un momento in cui i paesaggi interni ed esterni si identificano, sono gli stessi: i cosiddetti “paesaggi mentali”, paesaggi onirici. Potrebbe essere, ma mi è più difficile pensarlo: che le proiezioni mentali e i segni esterni dello spostamento, le proiezioni esterne, si annullino a vicenda. Solo un’intensa pratica della visione può permettere di individuare questi punti che, sono sicuro, sono reali, esistono e, soprattutto, possono essere fotografati. Con questo intendo dire che è possibile concepire un’opera cinematografica costituita solo da paesaggi e proiezioni “ponte”, in cui contemplazione e interpretazione (il processo mentale) sono indistinguibili”.

 

(continua)

 

 

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