Smarrirsi per non più ritrovarsi
Una delle prime sequenze di Pacifiction, il nuovo, straordinario, film di Albert Serra, mostra le prove di una coreografia che simula un combattimento tra galli. Una danza avvincente che emula un rituale crudele e violento. Quella scena, che sembra tutt’altro che centrale nella pellicola, in realtà esplicita in maniera quasi beffarda il senso del film (e del cinema di Serra).
Che cosa racconta Pacifiction? Di un alto commissario della Repubblica, De Roller (Benoît Magimel), di stanza a Tahiti per amministrare i territori della Polinesia francese e assicurare la tranquillità della popolazione. Infaticabile (e stanchissimo) De Roller accoglie un Ammiraglio di marina (Marc Susini), che, piuttosto su di giri (colpa dell’alcool e della missione che deve portare a termine), abita il night dell’isola, bevendo e ballando, e anche gli incubi paranoici del protagonista e dell’esagitata cittadinanza, cappeggiata da un giovane fumantino, che vorrebbe organizzare (forse) un golpe, o quantomeno una sommossa con l’aiuto di un (amico) americano, per impedire nuovi esperimenti nucleari in quei luoghi incontaminati (l’Ammiraglio non è lì per quello?). Ma De Roller, da impeccabile padrone di casa, si occupa anche di presentare il nuovo libro di una nota scrittrice che ha l’audacia di mostrare il fantomatico lato oscuro dell’essere umano e che sbarca sull’isola per trovare nuova ispirazione e un po’ di riposo. Gli impegni del protagonista non terminano qui. Non manca, infatti, di far visita al sindaco dell’isola vicina, che di lì a poco verrà rieletto con una maggioranza schiacciante, di ritrovare, grazie all’aiuto del suo intraprendente braccio destro, Shannah, i documenti di un misterioso e losco figuro portoghese, di verificare i maneggi di alcune ragazze che passano le notti sull’imbarcazione dell’Ammiraglio e dei suoi uomini e che il mattino tornano in pessime condizioni. Si direbbe dunque che De Roller, lavorando di diplomazia e esperienza, abbia in pugno la situazione. Elegante, coi suoi completi di lino bianco, le camicie hawaiane, e i capelli sempre in ordine, presenzia ovunque lo porti il suo ruolo, stringendo mani, pronunciando frasi di circostanza, tranquillizzando e assecondando chiunque lo interpelli. Ma il suo instancabile andirivieni gira a vuoto, così come sono svuotate di senso le parole e le frasi che vengono proferite. De Roller, come tutti i personaggi di Serra, è opaco, una pedina agita dalla Storia, dalla sceneggiatura, dalle retoriche che permettono al film di avanzare. Anche il lavoro con il cast è stato pensato per fare in modo che gli attori fossero perduti in mezzo alla scena. Pur partendo da un copione estremamente preciso e complesso, il regista di solito dà pochissime indicazioni agli interpreti, spesso ponendoli in condizione di non capire o fraintendere che cosa si stia mettendo in scena. “Sulla scena ha spazio solo la macchina attoriale intesa come assenza. La lettura, come oblio e dimenticanza del testo, non come verifica o presenza. Un non-fare, un abbandono…”. Questo metodo, di certo rischioso e apparentemente destinato al fallimento, porta invece a risultati sorprendenti e totalmente coerenti con quello che è, in definitiva, il suo cinema, ossia uno smascheramento costante della realtà sottesa a paradigmi e falsificazioni.
Cosa cercano in fondo i libertini che attraversano la notte in Liberté? Di appagare un desiderio già sfinito, che del desiderio non ha più nulla ma è semplice coazione a ripetere. La ricerca senza sosta di un piacere che non giungerà mai perché già appagato, sfiancato, diventa fine a se stessa e compie la stessa evoluzione del capitalismo e del conseguente consumismo - Serra è, a discapito di quel che si pensi, un regista estremamente politico - con una coerenza impeccabile. Non diversa da quella del suo Casanova, che in Historia de la meva mort cede il passo a Dracula, così come l’Età dei Lumi la cede al Romanticismo, privando le due epoche di una profondità intellettuale, riducendo le due figure che le rappresentano a due stilizzazioni, scarnificandole fino a renderle degli stereotipi – Casanova che mangia, espleta i suoi bisogni corporali e in maniera macchinica dà piacere alle donne, Dracula che con un rigagnolo di sangue al lato della bocca si avventa sul collo delle malcapitate. Allo stesso modo, il suo Don Chisciotte passa il tempo in una radura col fido Sancho, preparandosi a una battaglia che non avverrà mai, combattendo con la sua spada contro un refolo di vento. Così i tre Re Magi intraprendono un viaggio senza meta e senza fine per far visita al Bambinello e i Luigi XIV ripetono un’agonia ormai esaurita (La Mort de Louis XIV) fino a simularla esplicitamente (Le Roi Soleil).
C’è una scena, quasi in chiusura di Pacifiction, in cui l’Ammiraglio inizia a ballare nel night club, invitando gli altri astanti a unirsi alla danza. Questa scena è composta da due sequenze pressoché identiche - Serra ha girato più ciak per sceglierne poi il migliore. In questo caso giustappone i due che reputa i più riusciti, e il film potrebbe anche interrompersi in quel momento, poiché al regista non interessa minimamente risolvere le ambiguità della narrazione. Infatti, Pacifiction è un grande film sul potere evocativo delle immagini e sulla forza soverchiante della messa in scena, sulla capacità di innescare l’immaginario che ognuno di noi si è costruito negli anni, portandolo all’esplosione, creando immaginari altri, vividi, espansi, travolgenti.
“E l’uomo che cos’è? Nient’altro che un malinteso sulla scena dell’esistere”. De Roller, nel corso del film che utilizza, per altro, tutti i modelli del cinema di spionaggio americano degli anni ’60 e ’70 e della letteratura da cui quel cinema prendeva ispirazione, è privo di qualsiasi evoluzione. Sempre più confuso, perduto, viene parlato dalle retoriche che utilizza in ogni situazione, a seconda dei suoi interlocutori e del canovaccio da seguire. Le uniche volte in cui è sincero, l’uomo è sopraffatto dalla stanchezza o dall’ubriachezza. Ciò che rimane è la paranoia che, montata per circa due ore, deflagra negli ultimi venti minuti, in palese assenza di qualsiasi appiglio concreto. Tutto nasce dalla distorsione della realtà tramite discorso. La contraffazione, ripetuta più e più volte, assume un’autenticità priva di qualsiasi riscontro. Infatti, non accade nulla. Nessuna sommossa, nessun golpe, nessun esperimento nucleare, solo un ultimo, delirante, monologo dell’Ammiraglio, che ricorda quello del dottor Stranamore al termine della pellicola di Kubrick. Le immagini che chiudono il film, quelle di una barca all’orizzonte, svanita tra il riverbero dell’acqua e le luci dell’alba, come se in fondo non fosse mai esistita, dimostrano ancora una volta che in Pacifiction l’inizio potrebbe coincidere con la fine e la durata avrebbe potuto dilatarsi per ore e ore senza che nulla cambiasse. Uno “smarrimento dell’identità stessa, dello scopo per cui si è agiti, del senso”.
Nota tutti i virgolettati sono di Carmelo Bene