Un’idea nella testa e una cinepresa in mano: storia di un cannibale brasiliano
Continuare a non prendere sul serio Ivan Cardoso, sarebbe come dire che l’abisso visionario di Rogério Sganzerla fosse frutto del caso, e non segno filmico matematico del caos; sarebbe come vedere nelle Materie di Julio Bressane un testo fuori controllo, e non l’attitudine unica e irripetibile a inventare una lingua nuova in quanto forza fuori controllo; sarebbe come liquidare José Mojica Marins alla stregua di un pazzo che ha fatto cinema per pura perversione, e non uno che ha visto nel film l’idea stessa di un’immagine-perversione; sarebbe come dare a Hélio Oiticica l'etichetta di artista plastico, e non vederne, in quella sua estenuante interrogazione del corpo, la disposizione propria di un grande tragico (hélios, o sol, não a desmesura, poetava di lui Haroldo de Campos); sarebbe, allora, come limitare Cardoso stesso all’ampio e spesso equivoco e impreciso campo di derivazione dada e surrealista (in parte è quello che si evince anche dalla bella selezione di Rotterdam per la sezione Really? Really, dove però, con un po’ più di attenzione, si precisa l’idea di Surrealismo – e qui Cardoso c’entra eccome – in “the true art of people”), e non ricostruirne invece la frenesia insieme serissima e altamente ludica con cui tracima testi classici e supporti infiammabili, con cui compatta idee fulminanti e brani di film incompiuti, con cui solleva grandi mareggiate popolari (appunto) di spezzoni, resti e sequenze interminabili debordanti fra cinema e fotografia, illustrazione e pittura, poesia musica e romanzo. Sarebbe insomma come ignorarne l’esperienza tropicalista degli anni Settanta (insieme fra gli altri ad Augusto e Haroldo de Campos, Torquato Neto, Caetano Veloso, Gal Costa…), con tutta la sua natura cannibalica, che poi lo porterà all’inizio degli anni Ottanta, col suo primo film di finzione O Segredo da Múmia, a inventare il genere detto “terrir”, qualcosa a metà fra comico e horror.
Bacanal do diabo è in questo senso stupefacente e mirabile. Già nel 2005 con Marca do Terrir (allora presentato al Torino Film Festival, che per primo in quegli anni propose uno sguardo un po’ più circostanziato e ampio sul lavoro di Cardoso, presentando anche Um Lobisomem na Amazônia e Heliorama, e poi l’anno successivo Sarcófago Macabro), Cardoso aveva riunito i suoi Super8 degli anni ’70 (all’epoca proibiti dalla dittatura militare), nella forma antologica di un collage elettrico di sequenze perdute, pagine strappate da cinegiornali, cortometraggi, trailer. Ebbene, ora questa iper-veloce e traballante orgia auto-piratesca, che ha l’unica regola di godersela e di ‘drammatizzare’, a forza di fratture e iniezioni di virus, ciò che nell’immagine è sempre coazione a ripetere, in Bacanal do diabo esplode in un duplice movimento che da un lato la riduce all’osso, concentrata in una bolgia ininterrotta di trailer dei cortometraggi di Cardoso, dall’altro le dà una forma vorticosa e a spirale, che sembra davvero iniettarla ovunque.
L’invito, fin dalle prime immagini, è di salire sulle montagne russe (con nel fondo i due monti gemelli che tante volte abbiamo visto anche nei film di Bressane). Ecco allora l’annuncio reiterato e antropofagico di una valanga smisurata che comprende senza soluzione di continuità: club di vampiri sadomaso, brani super8 da un eco-horror (con la partecipazione straordinaria di John Lennon e Yoko Ono), la fantastica storia di un voyeur impenitente dedito al cunnilingus, Mojica Marins che rilascia un’intervista al Demonio, carrellate variopinte di musica e danze popolari, carrellate noir sulla metropoli (ricordo degli inizi con Tonacci e Sganzerla), la musa Sonia Silk sempre nudissima e perversa, torture-film con Wilson Grey le cui fattezze di Mabuse brasiliano piacerebbero a Jesus Franco, motel a luci rosse, Bob Dylan (a sua insaputa) protagonista di un corto in cui, prima del concerto, copula con tutta Rio, una riduzione (è il caso di dirlo!) dell’Ulisse di Joyce (in traduzione portoghese), una dalla Storia dell’occhio di Bataille, una fuga free jazz per scatole di pellicola, cinque minuti di primo piano su una ragazza che opera un’auto-rasatura vaginale e anale, un docu-horror sulla diffusione del crack nelle periferie brasiliane e, dopo i titoli di coda, corto-filmografia e la nota a margine ‘Abbasso la miopia legalizzata’, il riassuntivo e bellissimo Kardosocolors, dove l’occhio può infine liberamente vagare in una fantasia sottomarina di pure forme e bagliori.
Eppure, ecco il punto, in questa pratica fatta di immagini come scorie, agitate a perdifiato in una sorta di macchina celibe del nuovo millennio (O Cinema em Pânico, così si intitola un volume del 1990 pensato da Cardoso insieme allo scrittore R. F. Luchetti, che ricostruisce le origini e tutta la geografia ideale del cineasta), c’è una lucidità, una pervicacia e un rigore che la risarciscono della sua quarantennale sottovalutazione. Cardoso, che sembra conoscere meglio di altri l’odierna invasione e disseminazione di immagini e la loro sempre maggiore, quasi automatica, insensatezza e insignificanza, con un semplice gesto filmico (il montaggio!) riesce a ricavarne un indelebile momento di chiarezza e trasparenza. Se qui l’incoscienza e il desiderio sono commisurati a rigore e lucidità, questo è perché ciò che li fonda è anzitutto un’idea di cinema, un movimento falso e verissimo che è come una pennellata schizzata e debordante, la quale, invece di sbrindellarsi, si permette di cesellare nei particolari colate laviche di corpi, cattedrali, città e mosaici. E se questo, come è detto bene anche sulle pagine di questa rivista (v. Turigliatto su de Oliveira), di fatto inserisce Cardoso nella recente sublime fuga di cineasti che, ripensando e rimontando le proprie stesse immagini, ne ottengono una combustione che non è solo incandescenza, ma cosciente ricerca di nuovi valori filmici, ebbene Cardoso ne dà una versione insieme vorace dura e sibillina, appunto serissima, laddove, sempre fiammeggiando, avanza spedita verso appassionanti e inimmaginabili sviluppi futuri.