"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

INTERZONE – Rotolo armeno (Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi)

Monday, 26 October 2015 18:25

Edipo Massi

Parlare per immagini

Rotolo armenoNon è detto (e già dire la parola dire implica la caduta d’ogni parola) che lo scrivere abbia a che fare con la parola scritta più di quanto le immagini riguardino se stesse, il proprio corpo, per essere immagini. Piuttosto si tratta di una doppia invisibilità, di un’unica radice umida che frana in entrambe le direzioni. Lo sanno bene Yervant Gianikian e Angela Ricci-Lucchi che srotolano il loro Rotolo armeno sull’isola degli armeni in occasione della Biennale Arte 2015. La scrittura, in questo caso, è azzerata e subito rediviva nel riflusso, cioè avviene prima, viene da un prima che come sempre in quanto passato insiste sul presente: è un a solo che comprende suono, dettato, traduzione, racconto: voce (e scusate se mi dilungo un po’ fiaba su fiaba immaginando l’orale traversia della cosiridetta parola, i circoli intorno al fuoco, le stelle crogiolanti, gli zoccoli dei cavalli scalpitanti, i rintocchi e gli impatti e le fughe delle lingue – armene turche persiane curde… - la luna coi suoi lupi voraci iniettati di sangue, i mari e i fiumi gorgoglianti, re e regine sperduti sulle rive, padri, figli, spose, bugie, verità, deserti, notti, giorni…). E nei passages ecco un tourbillon di storie favolose che invece di imprimersi tentano coraggiose l’ultima diaspora colando dalla ruga dolce di un tappeto di acquarelli, come un dono che si ripercuote su un altro dono, cucendosi l’un l’altra sulla massa leggera di colori. Fiabe che attingono a un archivio insepolto e lo irradiano inventando nuovi margini e appuntando tasselli viaggianti (letteratura?) di una nuova possibilità geografica che riscrive il posizionamento stesso dell’occhio, carrello da un lato all’altro del rotolo sottovetro e insieme caduta e smarrimento e impeto goccia a goccia, che quasi non si sa più – che bellezza, finalmente! – da che parte incominciare a guardare (cinema?).

Gianikian e Ricci-Lucchi di questa memoria viva e fiammeggiante trattengono anche – di nuovo: dal passato al presente – l’orrore della carneficina, l’esodo, l’esilio, la morte (Raphael, il padre di Gianikian, il traduttore delle favole, profugo dall’Armenia alla Siria per scampare al genocidio, e il maremoto contrario oggi dalla Siria verso l’Europa: un altro salto nel vuoto incolmabile). La storia, come le fiabe, è una cantilena, tenera e terribile nel suo ripetersi, sempre diversamente uguale, sempre ugualmente diversa. “C’era una volta un re d’Armenia che aveva un figlio…” E, a seguire, se proprio si vuole scrivere, ecco il puro sonoro della traduzione e della lettura; oppure, se proprio si vuole filmare, ecco il meraviglioso raggrumarsi attorno a piccoli tocchi liquidi che mentre si imprimono già sono trasparenti, sgusciano via dagli occhi, impedendosi (finalmente! finalmente!) le orribili disumanità di nome stile e forma. L’archivio Gianikian e Ricci-Lucchi segue la traiettorie dei picchi e delle cadute della storia: così lontano così vicino alla parola e all’immagine da porsi nel punto loro invisibile, dove davvero trovano il respiro e la memoria dell’umanità perduta che li custodisce - contro l’odierna (e passata presente futura) barbarie.

Ma certo, parlare per immagini. Laddove appunti l’oggetto, ecco subito il distacco centrifugo dell’occhio. Non più solo rallentare l’immagine per raggiungerne e ricollocarne la trasparenza (e dunque la materia), ma tentare un continuum arabescato e anti-gerarchico capace di trasformare memorie strappate ai massacri, ancor prima che in immagini, in un pannello di luce, proprio nella struttura-filigrana della luce che è l’immagine in nuce (una cosa a metà fra Dal Polo all’Equatore, Ghiro Ghiro Tondo, e Oh! Uomo). Da sempre lettori onnivori di tutto quel che vedono, qui pennellano tutto quel che ascoltano. Ripartono da ciò che sempre si dissemina e si disloca per offrire un ritorno possibile a chi non è più tornato, o a chi è ancora in viaggio. Per vedere meglio? Non so. Non sanno. Questo è il bello (e il terribile): forse è parola, forse è immagine, il difficile è estrarle dal disastro, salvarle dal collasso. In assenza di uno sguardo generale, è sufficiente un bosco incantato, o un pesce d’oro, o un albero immortale.

 

 

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