La fabbrica dei sogni
La fabbrica dei sogni. Con le ore delle ombre che sembrano diventare perpetue, proiezioni continue e multiple di un cinema che riattraversa tutto Spielberg attraverso Roald Dahl. Non c’è solo Le avventure di Tintin dentro una visione cartoon più apparente che reale, dove in realtà c’è invece quella continuità simile alla trilogia di Zemeckis in performing capture (Polar Express, Beowulf e A Christmas Carol) in un cinema che insiste sulla sua magica duplicità che ha sempre segnato tutto Spielberg: l’anima più adulta, quella più infantile. Si passa così dalla predominanza della parola, in un set che ha i limiti teatrali degli strepitosi Lincoln e Il ponte delle spie, verso un recupero di sogni infantili. Il rapporto tra Sophie e il misterioso gigante innanzitutto gioca sul cinema a più dimensioni, dove la percezione dello sguardo, in stato di ipnosi, potrebbe modificare grandezze, prospettive, dimensioni. Un’illusione che arriva da Citizen Kane, nel rapporto del corpo che potrebbe ingrandirsi dietro l’inquadratura come quella di Kane nel suo manifesto durante il comizio elettorale. Così al tempo stesso, pur in differenti altezze e profondità, potrebbe invece rimpicciolirsi quello del gigante, quasi impotente rispetto a quello degli altri abitanti del Paese dei Giganti che invece si nutrono di esseri umani.
Si può vivere in altri mondi possibili. L’alieno di Incontri ravvicinati del terzo tipo ed E.T. anche in BFG entra in sintonia con gli umani. Con i fasci di luce veri o percepiti, forse gli stessi del cinema che ingrandiscono ciò che vedono proiettandolo su una superficie reale/immaginaria che può essere anche quella del muro. Prodotti da sguardi soggettivi, di chi vede le cose come se fossero la prima volta. Incredibile come Spielberg riesca a filmare con questa intensità e soprattutto questa primitiva purezza lo stupore, quello di uno sguardo incantato. Nella scena del ricevimento dalla Regina si mettono in gioco più sguardi sul Gigante. Più dimensioni che si incrociano in uno spazio troppo grande troppo piccolo, di sogni che si realizzano anche per semplici brevi momenti. Già da segni anticipatori (il giardino del Palazzo), già nelle immagini di Londra con echi di Charles Dickens dove Spielberg percorre velocemente e istintivamente il suo immaginario da David Lean a King Kong, del lago illuminato con quei flasci blu che riportano ancora ad E.T. Ma anche le improvvise ‘albe rosse’ di un cinema statunitense che ha smesso di guardarle, come se Spielberg assieme ad altri grandissimi cineasti della New Hollywood, dichiarasse apertamente l’insopprimibile desiderio di poter rifare quel tipo di cinema ma anche la dolorosa amarezza dell’impossibilità di farlo. Allora forse il residuo è proprio quella creazione dove Spielberg s’impossessa completamente di Roald Dahl, una scrittura elastica di cui ci si può impadronire come hanno dimostrato Wes Anderson (Fantastic Mr. Fox) e Tim Burton (La fabbrica di cioccolato). La meraviglia, l’invenzione diventano anche liminare al cinema di guerra dello stesso cineasta. La battaglia dei giganti è quasi un altro film, improvvisamente cupo, tra L’impero del sole e War Horse dove però, come in questi altri due film, la dimensione bellica apre continui squarci sul fantastico. Come se il film si aprisse e rivelasse altre immagini che ci stanno sotto. E in BFG potrebbero esserci anche quelle che non si sono mai viste ma, come avviene sempre in Spielberg, si ha sempre l’illusione di aver visto. E BFG, dopo esser finito, può ricominciare. Sophie che esce dalla zucchina e va nelle mani del Gigante...