"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

RITORNO A CASA - Abbas Kiarostami

Thursday, 17 November 2016 15:56

Giorgia Cacciolatti, Erik Negro

Abbas Kiarostami – l’infinito svelarsi d’un infanzia in viaggio

 

Capita sovente in queste piovose notti di inizio novembre di interrogarsi con quel senso stretto di una perdita che l’autunno amplifica, e spesso questo sentimento si allarga pensando non tanto alla mancanza di un’anima, ma al peso specifico dell’atto in potenza che mai più potrà essere. Le parole così fluttuano come un pallone da calcio giù dalle scale di un borgo antico e i ricorsi si inseguono ricorrenti per consumarsi accanto a qualcosa di già visto, qualcosa di quantomai familiare. Abbas Kiarostami è stato un uomo dai gesti semplici che continuamente ci ha invitato ad abitare lo spazio dei propri film come se attraversassimo una nostra memoria. Anche per questo il dipinto della realtà che ci restituisce il suo cinema, altro non è che riflesso del profondo intreccio intimo verso cui scivoliamo dolcemente, accompagnati e sospinti da immagini che non mostrano, ma si svelano al nostro sguardo, nell’intesa dai meccanismi empatici ed emotivi di un reale sempre più complesso. Sono questi fotogrammi che, pur nel loro movimento filmico, in un armonico oscillare tra naturalismo e rarefazione onirica, tendono al loro grado zero e ricercano strenuamente la purezza evocativa propria delle arti, della poesia, della pittura e della fotografia, autentiche e complete nella loro estranea istantaneità e colte nella propria necessaria narrazione.

 

È così difficile porre la parola fine, come se la paura paralizzasse anche il nostro voltarci verso ciò che dovremmo lasciarci alle spalle. Quelle inquadrature fisse come una finestra che sta per chiudersi sull’opera, suggellano solo un apparente finale, attuando la possibilità, se non la necessità, che lo sguardo personale affiori e riesca finalmente a riscattarsi. Così a posteriori tutto pare distante, perso in una giovinezza indecifrabile come il compito a casa che l’autore assegna al suo pubblico, attraverso la leggerezza di un fiore nel quaderno de Dov’è la casa del mio amico; o catturando storie senza inizio né fine, colte, amate ed abbandonate in media re: tanto la ricerca dell’esausta utilitaria e del suo conducente ne E la vita continua, quanto la disperata conquista del giovane innamorato in Attraverso gli ulivi, non si arrestano sulla cresta di una collina o nella selva di un bosco, si aprono invece verso scenari ininterrotti che generano vita altra solo nell’infinito immaginario di ciò che ancora oggi si è sedimentato in noi. Kiarostami demanda all’intimo di chi la riceve, il compito di definire e continuare la storia dei suoi protagonisti, che smettono di essere personaggi, uscendo dalla propria crisalide per divenire persone. Riaffiorano l’affermarsi di quelle anime pian piano, sul pelo dell’acqua di un frammento, con la loro valigia di immagini e sentimenti, frammenti di cinema da ricongiungere nella loro più fragile provvisorietà. Giunge a stabilirsi una relazione profonda, a tratti problematica tra la materia e chi è pronto a riceverla; l’autore che talvolta non indugia a esporre la sensibilità del suo pubblico in luce della necessità della rappresentazione, è invece l’uomo capace di stimolare un’emotività amplificata nei propri soggetti e in chi la percepisce, anche attraverso un’incalzante rievocazione del ricordo doloroso che non si ferma nemmeno di fronte alla crisi di panico di un bambino. Un percorso quantomai tortuoso che ha la necessità di porsi e porci entro una dimensione cognitiva, per cui la realtà che si manifesta in tutta la sua potenza evocativa è la stessa persistenza di una dialettica più ampia nella sua apparente semplicità.

 

Ogni passaggio che giunge al termine presume nel suo atto uno spostamento, un attraversare nello spazio figure che si muovono come metafore del disastro. Così il viaggio che lo spettatore compie, ne E la vita continua e Attraverso gli ulivi, tra le persone e i luoghi devastati dal terremoto, proprio in quel distretto di Koker che Kiarostami aveva già incontrato tempo prima con Dov’è la casa del mio amico, è un dipinto della morte atto a celebrare la vita che si rivela tra le macerie, dove nel dramma collettivo riesce trovare un proprio luogo anche lo struggimento per un amore non corrisposto, o uno stravagante episodio di un matrimonio svoltosi il giorno dopo la tragedia. Ogni disastro esige il suo contrappunto di speranza e di ricostruzione. In Compiti a casa Kiarostami entra nel profondo nella sensibilità e nello sconforto dei suoi piccoli soggetti, ha bisogno dei racconti sulle punizioni dei genitori e delle verifiche incerte dei maestri, indaga l’incomunicabilità socio-culturale tra alcuni bambini e i padri analfabeti, le nevrosi che si creano nel nucleo familiare, la disattenzione naturale e spontanea dei giovanissimi. Tutto ciò per mettere allo scoperto un sistema educativo che ha il suo perno nell’ossessione per il controllo, per la regola e l’autodisciplina che si genera dal terrore verso l’adulto, cercando di ampliare lo sguardo dello spettatore verso un’ulteriore riflessione, intorno alla natura stessa dell’istituzione sociale di un paese scosso dalle fondamenta, che vive una profonda crisi identitaria. L’immedesimazione è fuga, o quantomeno ne contiene la sua presenza. La paura, il desiderio di evasione da un controllo claustrofobico, i muri sorti all’interno dello stesso nucleo familiare come in quello sociale, lo sconforto per l’insuperabile incomunicabilità tra figli e genitori, fanno sbocciare nelle anime dei più piccoli un ancestrale desiderio di trasgredire la norma sociale, la regola imposta da padri e maestri. Una solidarietà tanto intensa da fargli dimenticare per un giorno la paura dei propri parenti, e che spingerà Ahmad a compiere un lungo ed estenuante viaggio, apparentemente inconcludente a livello pratico. Lo stesso viaggio dell’impossibilità di fare e guardare cinema, perchè costantemente passato, colto attraverso i tremori di uno specchietto retrovisore e lì confinato. Ogni fine, in fondo, prevede anche un suo naturale percorso a ritroso. Nel cinema di Kiarostami sono proprio gli “eroi in miniatura” ad intraprendere viaggi in solitudine, quasi a rappresentare l’ansia di sperimentare la vita. L’esordio e la piccola/grande epopea di Ghasem, il Viaggiatore che, nell’amore per il gioco del pallone e nel tentativo di una personale realizzazione e affermazione in un mondo sordo e adulto, intraprende una macchinosa odissea verso la capitale. Ma, sfinito dagli affanni di una giornata stravagante e complicata, si addormenta prima del fischio d’inizio, non riuscendo ad assistere alla partita, mentre durante il sonno gli appaiono disturbanti le immagini della madre e della scuola. Così l’ennesima metafora, come se ancora la cariatide della giovinezza che abbiamo anche noi posseduto potesse sconvolgerci e svegliarci dal torpore di una quotidianità, rifugio angusto ed embrionale, correlativo (s)oggettivo della nostra anima in attesa di conoscere il mondo.

 

KiarostamiOgni viaggio presuppone anche un bivio, un incrocio, un ritorno. Così l’impresa del viaggiatore Ghasem e il poemetto intorno le gesta dell’amico di celluloide Ahmad sono epopee di natura diversa: individualistica e di evasione la prima, empatica e di partecipazione di un medesimo spazio socio-culturale la seconda; intercorrono infatti tra le due opere tredici anni durante i quali, a più riprese, viene inferta una grande ferita a un Paese dilaniato da una rivoluzione contraddittoria quanto claustrofobica che segnò anche un cupo e profondo silenzio dello stesso Kiarostami. Ma, prima o dopo la Rivoluzione del ‘78, attraverso cammini fallimentari o risolutivi, nulla pare cambiare in quell’infanzia, veicolo di un messaggio che dal particolare volge all’universale; la castità dello sguardo dei bambini, scevro dal pesante bagaglio esperienziale tipico dell’età adulta, è catalizzatore di passioni umane ed è in grado di coglierle ancora grezze. In questi viaggi “di iniziazione precoce” dell’Iran contemporaneo risuonano da lontano echi di tradizioni diverse, attinte dal variopinto calderone culturale persiano, per cui l’intreccio tra passato mitico e presente filmico è proiettato verso l’indagine del futuro, di una società, dell’uomo. La narrazione arcaica diviene stimolo e prospettiva. Una prima rappresentazione della sapienza custodita nella purezza, di cui l’infante è simbolo, è già presente, in una variante folclorica, nella potenza della risata che si irradia nel volto del neonato Zarathustra, di fronte ai demoni atterriti. Poi tra le pagine dello Shah-Nameh, nell’impresa vittoriosa di Bastur che disobbedisce al divieto del re suo zio Goshtasb, spinto dal desiderio di vendicare il nome del padre ucciso in battaglia, ecco forse l’archetipo epico del giovane intraprendente che viola la norma paterna. Nomi e figure che si susseguono nella memoria, che escono da libri di mitologia e tradizione per confrontarsi con le anime incapsulate nella pellicola, confondendosi e sfiorandosi nel loro compiersi. Pare di sentire ancora il suono di una porta chiudersi, forse quella dell’artigiano ne Dov’è la casa del mio amico?, il dialogo con la figura del Pir, il Maestro spirituale nel cammino del discepolo sufista, unica figura con cui il protagonista istituisce un dialogo, il cui insegnamento si cristallizza in un piccolo fiore ritrovato in un quaderno.

 

E così anche questa parola fine che dovrebbe risuonare come lapidaria rivive e rifiorisce in prospettive nuove, di splendida infinitezza. Quello che così rimane di Kiarostami è una lingua che germoglia dalla sua stessa esistenza, una relazione intima con il suo pubblico, arruolato in prima linea, che diventa termine dell’operazione filmica senza cui essa non avrebbe luogo. Ed è in questa simultanea attività che si sprigiona tutta la militanza di questo cinema; nel fluido intrecciarsi di sguardi - del regista, dei suoi soggetti e del pubblico - la realtà viene dis-velata, non rappresentata, affiora come in poesia, più che in filosofia, nell’intimo della recezione e nell’incontro emozionale. Su questa soglia l’esigenza di costruire un’immagine perennemente vitale e mai realmente finita, figlia di una percezione e madre di un nuovo pensiero. Perché, mentre sta filmando, riesce a catturare un’immagine che ai nostri occhi non esiste, quasi come se fosse letteralmente creata, mistero di presenza che solo nel bagno mistico della camera oscura si rivela al nostro sguardo. Un eterno cortocircuito di amori tra la spontaneità della natura o dell’anima e la stessa convezione tecnologica o sociale, un eterno contrasto che dalle più complesse strutturazioni scientifiche, teoriche ed esistenziali sull’essere diventano canto di gioia, libertà e leggerezza. Godard un giorno disse che il cinema nasceva con i Lumière e finiva con Kiarostami, quasi come se tutto tornasse prima di spegnersi in un lungo addio. Rimangono forse gli splendidi settantasei minuti che Samadian Seifollah ha dedicato al maestro. Non un film, non un documentario, solamente una bozza di anime e paesaggi, di saluti e passaggi. Nel finale, mentre un altro set è improvvisato, il bimbo Abbas corre a perdifiato alle pendici di una collina, bimbo tra i bimbi come quelli con cui volle vedere il mondo nei suo film. È solo una questione di occhi e di cuore, l’esserci e l’esserci stato, lo scomparire e il rivivere infinitamente nelle corrispondenze espanse di tutto quel ritorno circolare che ha il sapore di un percorso, quello del cinema come umilissimo e poetico linguaggio della vita, e viceversa. Come banalmente ogni addio può rivelarsi un arrivederci, così il non finito appare infinito. Nulla in questo modo scompare, nemmeno nelle ormai piovose albe di inizio novembre, dipinte nella nebbia.

 

 

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