Che cos’è il cinema?
“Senza il cinema la decadenza dell’aura si farebbe sentire in una maniera non più sopportabile”. La frase arriva in coda – con un urto frontale del tutto imprevisto, come per un colpo di sonno alla guida o (Benjamin di sicuro, ma anche Godard, gradirebbe il paragone) l’assestarsi divinatorio di forme nei fondi di caffè. Ma del cinema, in questo lacerto intitolato Che cos’è l’aura? (rinvenuto qui: tre fogli di cm 18,5x11 provenienti da un blocco pubblicitario, v. Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Neri Pozza 2012, da cui provengono tutte le citazioni a seguire in questo testo; e poi, negli ultimi drammatici mesi di vita, ripreso quasi per intero da Benjamin nella famosa seconda stesura Su alcuni motivi in Baudelaire), fino a quel momento non c’è traccia, di modo che la sua emersione, con quella maniera ironica e dura del Benjamin insieme notista e rivoluzionario, prevede o fa pensare a abissi spalancati su entrambi i lati, cioè prima e dopo la cosa scritta (modus operandi eminentemente vertoviano). A meno che non si voglia intravederlo (il cinema) sull’annotazione spaiata scritta sul margine superiore del primo foglio: “Essere guardati alle spalle / incontro degli sguardi / levare lo sguardo, ricambiare lo sguardo”. A posteriori, ma anche appunto in forma di veggenza lumièriana, diremmo che sì infatti c’è una lingua (che è la lingua) del cinema che non ha niente a che fare col modo tecnico e neppure col piano espressivo. Una lingua senza futuro, ossia inattualizzata al punto da segnalare l’illusorietà del passare di stagioni e epoche e insistere inesorabile a posizionarsi nel contemporaneo, per chi voglia misurarne (con annesso tremore) distanza, lontananza. “L’aura è il manifestarsi di una lontananza”. Quando tu vedi qualcuno o qualcosa levare lo sguardo per guardarti dai al tempo stesso la tua posizione e azioni una forma di trascinamento verso l’altro. Ora, i passi che si decidono di compiere in quella direzione o per restare fermi li chiamiamo film. E la danza naturale (nel peggiore dei casi – la stragrande maggioranza - autoritaria e fasulla, nel migliore zoppicante e conscia della varietà inconoscibile del cammino) attorno prima e dopo le immagini, si dirà proseguimento conflittuale del cinema nella parola. Sto dicendo che tutto quello che sappiamo dello scrivere di cinema (indipendentemente dai film!) lo si deve a Benjamin? Si, dal momento che “l’occhio desto non perde l’arte dello sguardo quando, in esso, il sogno si spegne. Al contrario, solo allora diventa davvero insistente”. I piccoli salti e i grandi abissi, le piccole e le grandi intuizioni, le striscianti pigrizie e i folli desideri, i vortici i nastri e le disseminazioni, le chiarezze le incomprensioni (ah, i punti di vista!) e le perdite di memoria, relative e subordinate, logorrea e balbettii, entusiasmi, passaggi a vuoto: ecco detta l’arte del film riscritto (ne consegue che riscrivere Benjamin significa parlare e scrivere di cinema? Si). Cercare di assomigliare allo sguardo di chi risponde al tuo sguardo: naturale reazione umana cui il cinema, sempre più flebilmente, assegna una voce, ma include anche la pazzia di essere tutte le voci. Ciò da un lato provoca dispersione e obsolescenza e la parola diventa al massimo insulso brusio; dall’altro allude alla possibilità di una trasformazione. Ciò “può a lungo dissimulare come sia diventato pericoloso vivere nella società umana” in stato di decadenza dell’aura, cioè nell’incapacità ormai di levare lo sguardo verso l’altro dando attenzione e donando la propria differenza e intensità, cosa che secondo Benjamin è alleviata (altrimenti sarebbe “insopportabile”) dal cinema (e cosa che tuttavia non ha evitato di lì a poco la Seconda Guerra Mondiale, e, visti i modi di circolazione dell’immagine e gli eventi macabri che si susseguono, meglio sorvolare sull’oggi). Ma se viviamo in una condizione di insopportabilità, a cosa si devono gli sprazzi di sopravvivenza che pur sussistono? E come fa il cinema a sopravvivere ai film? E se l’aura è quasi del tutto decaduta, il cinema è ancora a salvaguardia di qualcosa? Di Baudelaire diceva: “descrive occhi di cui si potrebbe dire che è andata perduta la capacità di guardare”, sapendo da subito che l’immagine in sé è il racconto non solo della perduta capacità di guardare ma di quello che sempre si perde (e ci si perde) guardando.