Olmi contro il cinema macchina di morte
I due film di Ermanno Olmi usciti nel 2017, vedete, sono uno di voi e l’inedito, riemerso dal 1968, Il tentato suicidio nell’adolescenza (TS giovanile), insieme al precedente lungometraggio torneranno i prati, di cui si scrisse nel primo film parlato (che curiosamente opta per un nome a tutte minuscole come i titoli dei due ultimi film di Olmi), sono certamente il momento più alto del cinema odierno.
Sono il luogo in cui più nettamente dopo Dreyer si rifiutano gli esiti mortali della vita e del cinema. Si può aggiungere allora che la contemporanea uscita di due volumi epocali e postumi (editi entrambi tra 2016 e 2017 da Adelphi) ne sia il più preciso accompagnamento: mi riferisco al testo originale e ricostruito con tutte le varianti di Eros e Priapo di Carlo Emilio Gadda (su cui scriveremo meglio in un prossimo numero) e la ricostruzione, di un azzardo non altrettanto filologico, degli appunti di Elias Canetti per un mai realizzato Il libro contro la morte. Due libri che sono anch'essi quintessenza del cinema: quello di Gadda ebbe un'edizione apocrifa nello stesso 1968 in cui nacque, rimanendo inedito, il mediometraggio di Olmi, e di quell’anno simbolico essi diventano le tracce più persistenti, insieme a un altro film per certi versi abortito seppur convintamente fatto proprio dall’autore, Seduto alla sua destra che considero il capolavoro massimo di Valerio Zurlini (nato come costola iper-pasoliniana del progetto Vangelo 70).
Il 1968 è stato l’anno della morte di Carl Theodor Dreyer, della sconfitta delle ultime speranze di poter realizzare il Jesus, e in quell’arresto si sospende l’amor omnia eletto a epigrafe nell’ultimo suo film realizzato, Gertrud, e si rilancia il film centrale della storia del cinema, Ordet, film di cui si dimentica che fu anonimo: i titoli di testa e di coda si riducono a un unico cartello, Kaj Munk Ordet (che andrebbe considerato il titolo completo), quindi vi si nomina solo l’autore del testo, lo scrittore e pastore ucciso dai nazisti, mentre il nome di Dreyer non appare (come anche nel suo altro film estremo, Kampen mod kræften [Lotta contro il cancro]). Scelta mai esibita o motivata (Dreyer si veste spesso di esoterico, come prova Vampyr), e che solo attorno al ‘68 comincia a diventare frequente nei titoli (o mancati titoli) di film, quelli di Godard per esempio (anche mascherandosi del nome di Dziga Vertov).
Il discorso ci porta forse troppo lontano, ma prima o poi bisognerà soffermarsi su come, nella cronologia fluida del cinema, convergano nelle fratture del ‘68 almeno tre altri film esemplari: il primo film postbellico di Francesco De Robertis (cineasta acquatico e insieme astrale, evocante costellazioni di Alfa-Tau, Mizar, Orsa Maggiore...), Fantasmi del mare, con non casuale coregista Vittorio Cottafavi; l’ultimo film di Raffaello Matarazzo, Amore mio, film di ogni possibile futuro; e il film di Roberto Rossellini che rigetta il cinema abbracciandolo più che mai, L’età del ferro (e anche qui cominciano le regie cedute di volta in volta a Renzo Rossellini, Emidio Greco, Beppe Cino).
I grandi cineasti, proprio sapendo essere il cinema macchina di morte (lo teorizzò Jean Cocteau che compie l’ABC dei primi che videro la grandezza di Dreyer, con Artaud e Buñuel), lo rifiutano anche con la propria tentazione del suicidio.
Ma veniamo a questo meraviglioso mediometraggio di Olmi, di cui nessuna filmografia recava traccia, film insomma cancellato in uno di quei buchi neri di cui è costituita la storia del cinema. Non fosse stato per la perspicacia degli archivisti della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia (che da decenni si occupa con libertà e insieme rigore della storia del ‘900, e del ‘68 e del ‘17 eminentemente, pubblicando volumi bellissimi con la Jaca Book), capaci di identificarlo in un casuale dono di ritrovamento, e per la determinatezza di un critico amico, Tatti Sanguineti, che certamente avrà sorriso più volte a leggere quel TS nel sottotitolo (ed è davvero insolito che un già titolo di lavorazione diventi sottotitolo), come noi sorridiamo ad accogliere dopo Venezia il film ai Mille occhi, a Trieste (sigla TS), città dell’esperienza basagliana che ha travolto la psichiatria certo onesta ma tuttavia inadeguata che compare in questo film: non la psichiatria brutale del dottor Camillo Negro filmato da Roberto Omegna, né quella dei manicomi-lager che Basaglia chiuse (Michele Zanetti, che fece venire Basaglia a Trieste, racconta anzi che il professor Carlo Lorenzo Cazzullo del film di Olmi fu nella commissione che scelse Basaglia alla direzione dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste), insomma una psichiatria che vuole innovare nella tradizione, citando coltamente Jaspers, ma la cui inadeguatezza sta nell’arrestarsi di fronte ai destini di morte, semmai opponendovi spiritualità e ruoli familiari. Il film di Olmi è straordinario per il suo rendersi calco dei discorsi psichiatrici che vi si ascoltano, e insieme travolgerli in ciascuna delle molteplici inquadrature di volti, sguardi, gesti, che si montano nel film probabilmente attingendo anche a immagini preesistenti dalle serie televisive giovanili del regista. Il film diventa una quasi insostenibile lotta con una macchina di morte che il cinema è troppo disponibile a far propria. Ma ogni inquadratura è un punto di fuga, ogni presenza che vi appare ha infiniti possibili futuri, ed è subito travolta da un montaggio che rende evidente come il suicidio sia l’assunzione di un omicidio. E realtà o finzione pari sono, e infatti tutta la parte finale, di finzione, racconta la storia di tutti i tentati ed effettuati suicidi reali. Un’amica che vide il film a Trieste non poté non collegarlo al ricordo della sorella morta suicida.
Il film è percorso di musiche quasi da sigla, e si conclude su un’immagine di suora passante che quasi parodia il richiamo ai valori spirituali della voce fuori campo: finale sospeso, quasi tronco (e non perché incompleto), come troncata fu la vita di quel film. Perché? Non convinse l’industria medica Sandoz che lo produsse? Certamente è difficile che non avesse convinto Olmi, che lo firma nei titoli con un convinto “un film di”. Non escludiamo che possa esser apparso al committente o troppo vecchio o troppo giovane, fa lo stesso, oppure troppo poco qualcosa. Anche oggi il film è giustamente spiazzante: alla proiezione di Trieste c'era chi lo sentiva fuori tema rispetto allo scontro tra psichiatrie, e lo scrittore Claudio Magris presente non andava oltre un rispettoso guardarlo come amico di Olmi, ma quella macchina di morte dei discorsi psichiatrici veniva erroneamente percepita alla lettera come componente del film, e non come uno scontrarsi con la loro accettazione della morte.
E, se oggi il film è ancora inattuale, si abbraccia magnificamente a vedete, sono uno di voi, il lungometraggio in cui la voce di Ermanno Olmi impersona quella di Carlo Maria Martini, concludendosi con una benedizione, di un Martini sospeso di là della morte, come quella del vero Giovanni XXIII (dopo che era stato non-impersonato dal “mediatore” Rod Steiger) alla fine di e venne un uomo, film che già irruppe negli anni '60 come un atto fuori dal tempo (titolo alternativo possibile: e venne un film), e che perfettamente si congiunge col trittico olmiano di cui qui si tratta. Sia torneranno i prati (riferentesi alla prima guerra mondiale che finalmente oggi cogliamo come la rivelatrice delle consapevolezze, e nel cui rifiuto possono lucidamente unirsi Lenin, Malatesta, Bordiga, Tasca, Benedetto XV, Comerio, Rebora, Scalarini, Camerini, Gadda, Kraus, distanti in tutto fuorché nel non poterla accettare - anche se forse Rebora nella conversione assume sulla mortalità del corpo quel concime dei campi di battaglia che invece Olmi rifiuta nei prati del futuro) sia vedete, sono uno di voi (che riprende le missioni aggiranti la seconda guerra mondiale del non ancora papa Angelo Roncalli raccontate in e venne un uomo) danno false piste di ottimismo (la salvezza dell’umanità, le promesse della fede) ma sanno che a decidere è la biforcazione perenne del cinema, macchina di morte che contiene il rifiuto di se stessa.