"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

They (Anahita Ghazvinizadeh)

Sunday, 23 July 2017 22:17

Lorenzo Esposito

Lei

Che dietro l’esordio di questa giovane regista iraniana ci sia Jane Campion (produttrice esecutiva) è fin troppo evidente. Siamo dalle parti di In the Cut per la capacità di riversare sul film (sia proprio sulla patina che sull’andamento) l’incarto e incanto mentale della (?) protagonista in modo da ottenere una struttura fatta di pieghe e soglie che si rincorrono e insieme è come se volessero fare dell’immagine l’astrazione del vedere. Non è solo una procedura contenutista derivata dall’inclassificabilità gender dell’eroina quattordicenne J, ma proprio una concezione auto-ipnotica per cui la filigrana del film è fatta dell’incrocio instabile di sguardi su questo evento (scegliere il proprio sesso) ambiguo e per nulla chiarito che aleggia fra i personaggi.

Sorprende dunque il modo ritmicamente complesso con cui Ghazvinizadeh tratta la messa in scena, conducendola lentamente in uno stato di sospensione quasi catatonica nel più lungo pranzo di famiglia che sia dato vedere da tempo al cinema (compreso di infiniti preparativi). Chi è lei? La domanda produce un reticolato di rapporti e fatti quotidiani volutamente (e per contrasto) lenti e naturalistici, un mondo di apparenze  e occulte ancestralità che si amalgama e deborda in una tragica cecità collettiva. Da un lato scambi e occhiate sottotraccia, svincoli e vincoli famigliari sottaciuti; dall’altro il peso della casa madre Iran ottuso tanto quanto quello della casa ospitante Usa. Tradizioni intese come conflitto permanente ma tutto rivolto all’interno, per nulla interessato a processi trasformativi e dunque completamente deciso a rimuovere la scelta o il momento della scelta di J. Di nuovo, non è semplice linea narrativa, ma suo prolungamento quasi visionario a inventare un’atmosfera liquida, fredda, attonita. Curioso che ci si lamenti della lunghezza del pranzo (quasi tutta la parte centrale del film) proprio non vedendone la crucialità (anche metaforica!) nel costituirsi attorno a una pura deriva dei sentimenti. Semmai andrebbe verificata la tendenza neanche troppo sorniona della regista ad avere uno stile, cosa mai buona (soprattutto nell’accezione inglese di film stilish), seppure qui mitigata dal processo fluttuante con cui si ha l’intuizione di trasformare il film in un limbo inquieto continuamente sedotto e incrinato dal suo stesso dilemma. Chi vivrà vedrà.

 

 

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