"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Lisbona, estate, giovinezza. Una città che appare come un enorme set, dispersa ed inaccessibile, aldilà delle storie di Wenders, dell‘Angelica di De Oliveira, dei misteri di Ruiz. Un luogo dalla mappatura impossibile, di narrazioni incerte e abbozzate, di un respiro suadente ma dalla malinconia di distanze spesso incolmabili. Forse questo ancora non può saperlo Chico quando lascia l‘agreste e bucolica campagna portoghese per dirigersi nel reticolato di strade e vie che ancora oggi appartengono a Camoes come a Pessoa. Arriva per andare a caccia del proprio futuro, tra lavoro e studi, qualcosa che continuamente gli sfuggirà tra le mani, con un inquieto senso di inadeguatezza latente, inconsapevole e forse inevitabile. Vive con i suoi amici all‘interno di una enorme parentesi, in un‘infinita sospensione della provvisorietà, attraversando la superficie cristallina delle cose senza che nessuna di esse possa appartenergli. Disperso nella luce, stordito dalla musica, abbagliato dalla droga; con una Lisbona notturna figlia dell‘apparenza mentre quella diurna rimane solo sullo sfondo, attraversata da quel ventotto elettrico che scollina miradouri abbracciando il tempo e la sua nostalgica circolarità. Il finale lascia tutto aperto (e così tutto chiude), nell‘esposizione continua e dolorosa a suoni ed immagini apparentemente senza fine.
Chico gioca apparentemente con il tempo, non accorgendosi della pericolosità, o di quanto sia esso a prendersi gioco di lui. Lontano è l‘albero di limoni dei nonni che lo riparava dal sole cocente, ora sono i fari stroboscopici a bruciarlo, a rendere viva (e già consumata) una durata dalla prospettiva incerta in cui nulla è concreto e tangibile, disegnata sul crinale della perdizione. La provvisorietà annega amicizie ed amori, esasperandone una vitalità forzata, ampliandone i confini di un eterno presente, che non può ricordare un passato e tantomeno vedere un futuro. Nel giungere vorticoso delle tenebre al culmine di ogni giornata, un piccolo Decameron giovanile strappato alla contemporaneità, solo l‘attimo può aver la sua dignità; al calar della sera il rituale di un‘altra festa compirà il suo corso, lasciando altri frammenti, altre macerie, altre visioni del limbo esistenziale quanto emozionale in cui galleggia una generazione intera. Ogni abbozzo di storia, ogni embrione di una narrazione possibile, si fonde con un‘altra ed un‘altra ancora, disperdendosi nel gioco del caos, dentro un‘altra alba ancora che spunta all‘improvviso dalla luce troppo reale, e quindi fastidiosa, per i nostri giovani protagonisti. Una distopia dilatata probabilmente, o solo un disperato desiderio di vita, qualcosa di altro (altero ed alterato) non descrivibile perché ovattato nel rumore di fondo incessante.
In una splendida scena, consumata frontalmente all‘interno di una festa, il suono scompare e l‘inquadratura si stringe su Chico, sognante e astratto, protagonista del film ma forse non più della propria vita. Un frammento muto che appare infinito, un‘astenia dei sensi, qualcosa che spezza inevitabilmente la percezione da ambo le parti dello schermo. Cabeleira, giovanissimo, coglie con rigore e sensibilità il respiro di una generazione sul limite dell‘esser perduta, al confine di una crisi economica, politica e sociale che non genera mostri ma soltanto corpi vuoti alla deriva, dall‘anima ferita e dalla speranza oramai inevitabilmente corrotta. Si avverte il senso di una fatalità incombente, nello scorrimento inafferrabile proprio della giovinezza (come del cinema), sottratta alle tenebre solo dalla sovraesposizione della luce artificiale. Resta l‘oscurità di un‘adolescenza dissipata, di notti visionarie senza confini e di un‘ossessività informe in cui a stento ci si riesce a riconoscere, ad affrontare, a comprendere. Chico potrebbe venire da un‘altra epoca, conoscere la ragazza che Vítor Gonçalves all'esordio portò al cinema trent‘anni prima, nel misterioso, straordinario e seminale Uma Raparíga no Verão. Entrambi bisognosi di una strada, di una direzione, di una parola, entrambi in attesa di una possibilità, di un segno, di un amore. Entrambi ragazzi, entrambi lusiadi, entrambi poetici, battenti e battuti.