"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Still Recording (Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub)

Thursday, 06 December 2018 01:44

L’ultima linea di difesa

Roberto Silvestri

Quando il confronto armato non è più equilibrato, e una delle forze in campo è strapotente, quel che accade oggi nella Palestina sotto il dominio israeliano, nella maggior parte della Siria di Assad e dei Mig russi dopo oltre sette anni di guerra incivile, a parte il nord-est e un po’ di sud, e in Avengers: Infinity War (con i super eroi Marvel, per la prima volta, annientati da un super malvagio), l’immagine “resterà l’ultima linea di difesa contro il tempo”, documenta quel che accade.

“Qualunque cosa avverrà, e speriamo nulla di grave, l’immagine testimonierà i fatti, per i prossimi 50 anni”, ci dice questo film d’arte e di artisti combattenti (pittori, scultori, musicisti, cineasti e body-artisti) nelle prime sequenze. C’è una energia e un entusiasmo alla Dziga Vertov in questo gruppo di amici e amiche che danzano, vanno in piscina in bikini, si baciano, fumano (finché ci saranno sigarette e canne) fanno rap graffiti, discutono via radio con il nemico, e si tatuano. “Certo che ci piace vivere e alle manifestazioni dove ti sparano addosso non vogliamo più andare, per non scappare di continuo, ma affrontare questa morte con le armi in pugno per la libertà e l’eguaglianza è vivere di più”. Amiralay non è passato invano. “E poi la macchina da presa, dopo di noi, continuerà a inquadrare e a fabbricare immagini”. Non lo dice nessuno ma è questo che pensano questi ragazzi post umani.

Immagini. Non il visuale che ci ipnotizza nelle effigi giganti dei dittatori o nei tg, anche democraticamente sponsorizzati, rafforzando il potere delle parole d’ordine e dei “fake men”, ma l’immagine che scioglie le facili sintesi, libera dall’ordine e dalle gerarchie, interrompe i giuramenti e non ha paura del proprio sembiante spettrale. “Se si sa perché si ha una telecamera in mano. Se si trova il momento chiave per iniziare un film”... l’illusionismo diventerà illuminazione. I cadaveri gelidi, a Douma, 28 giugno 2012, di decine di cittadini inermi passati per le armi dalle truppe di Bashar al-Assad, sono la luce che dà energia e miccia d’accensione iniziale a questa bomba spirituale.

Presentato con successo in prima mondiale alla Mostra di Venezia e presto distribuito in Italia, Still Recording, film indipendente e outsider, nonostante il punto di vista politico coincida con i finanziamenti, ma “non omogenei”, di Qatar e Francia, è un accurato montaggio di due ore che scorrono rapide, incalzanti, fulminee, delle 450 ore girate fino al 2015 (anche da cameramen rimasti uccisi nel conflitto) nei dintorni di Damasco. Sulla guerra vista, combattuta, e subita, e dal di dentro. E inizia come un saggio da scuola, proprio con una lezione di cinema. La Siria è in rivolta dal basso contro il tiranno, c’è la capitale a portata di armi. Grande è l’ottimismo. Si studia un film d’azione e di mostri americano. Si ammira la perfezione di ogni shoot. L’inquadratura, come la mira del fucile, quando è perfetta trasforma il fotogramma in un frame autosufficiente, bello come una fotografia. “Notate la linea di sguardo del mostro, e lo spazio vuoto che attraversa...”. Riuscire a muovere attraverso una geometria di linee e sguardi ciò che è fermo. Non sanno ancora che Douma bombardata, chimicamente gasata e distrutta fino al 2018 si arrenderà definitivamente, al mostro, ad Assad, che ha trasformato la città in un vuoto assoluto, i giovani registi siriani Saeed Al Batal e Ghiat Ayoub che si schierano subito con l’Esercito siriano libero. Nonostante l’alleanza con i sunniti più fondamentalisti, i soldi sauditi e un po’ di fanatici religiosi che odiano i loro capelli lunghi, decidono di piazzare telecamere mobilissime come sensori subcutanei sulla linea del fronte, fino alla fine. In un documentario standard e in un real-movie si cerca il personaggio guida giusto e accattivante. Qui no. Le direzioni sono multiple. Il filo del discorso è futile. Nel senso etimologico dell’incrinatura nel vaso da cui fuoriesce l’acqua libera. Tanto che i nostri neuroni specchio, forse a causa del continuo muoversi della macchina dentro le macerie, quasi si volesse compiere un rito di resurrezione del cemento, si identificano più che con gli umani (una donna che cerca la madre e si scandalizza dei musulmani che sparano contro musulmani; il bambino testimone freddo di un eccidio; l’atleta che continua ad allenarsi tra gli spari perchè lo sport come la vita vince anche sui cannoni, il combattente che si sposa, il graffitista che dipinge su un muro, “non riconciliati” perché ci sono cose che non si possono comprare...) con i sacchi di terra utili al cecchino per proteggersi; con le pietre urlanti sul selciato divelto, con i muri sbriciolati dei palazzi, con i buchi che lo sniper deve fare, meglio se due, per proteggersi e colpire di più; con l’ascensore rotto che permette una carrellata verso il basso mai vista; con un tunnel sotterraneo lisergico; con un camera-camion ad alta velocità in un cunicolo che eguaglia per virtuosismo il finale di Guerre Stellari.

 

 

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