"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Ho sempre pensato a “The Americans” come prototipo di un opera d’arte totale e allo stesso tempo provvisoria, così densa di vita e così incapsulata in quella cariatide del tempo che è la fotografia. La grandezza di Robert Frank sta così anche nella sua leggerezza, quella d’aver descritto i limiti di un continente nell’unico modo possibile, attraversandolo (con l’occhio di chi lo abita). «La verità è il modo di rivelare qualcosa della tua vita, dei tuoi pensieri, delle tue posizioni. Non è una cosa che sta lì a sé stante, la verità. È combinata con l’arte. E io voglio realizzare qualcosa che abbia a che fare meno con l’arte e più con la verità. Il che significa spingersi sull’orlo del precipizio - perché la gente è più a suo agio con l’arte che con la verità». In queste parole (tratte dal catalogo di “Moving Out” grande mostra che la National Gallery of Art di Washington gli dedicò nel 1994, e riprese da Giulia D’Agnolo Vallan nel suo omaggio a Frank per “Il Manifesto”) risiede forse tutta l’essenza di una vita passata sulla strada. Dagli anni rincorsi, da battente e battuto, con Jack ed Allen, al ritiro spirituale in Nuova Scozia; dalle radici della moderna “street photography” alle sperimentazioni video, sempre legato ad un idea poetica unica di quel baratro della verità in cui ha oltrepassato il (suo) secolo. Proprio sessant’anni fa girava, con Alfred Leslie, Pull My Daisy adattato da Kerouac. Con lui attorno a un tavolo, Ginsberg, Orlovsky e Corso (partendo dalla figura della “musa” Cassidy), Frank chiudeva idealmente la stagione Beat per aprire quelli che saranno i lunghissimi Sixties americani. Un’altra opera seminale che ritorna, inesorabilmente a quel viaggio fatto con la Leica in mano. Ecco perchè quelle ottantatre immagini non sono la struttura interna di album o la descrizione di un momento del paese più complesso attraverso il suo cambiamento più radicale, “The Americans” guarda al movimento che non c’è, dona alla fotografia il possesso della durata. Attraverso il tempo, anzi lo attraversa in quell’immortalità istantaneamente morta e perennemente viva che è lo scatto (fino a noi).