"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Nel grondare sanguinoso, fumoso, era stato un cafarnao di ruderi, cibi marciti ovunque, una foto alla parete rancida, sputata, trafila di muffa, di penombra; nel colare di un tramonto autunnale fattosi acquoreo, Rutger Hauer s’imprime ancora, e per sempre, fiore di carne, non carne morta, in quella luce proiettata dall’orizzonte cinematografico, quando lascia andare un gabbiano che non può che puntare, con vorticare, folle sbattere d’ali, sfondare la luce, quella moria fiammeggiante da cui tutte le cose si creano, tanto più in questo autunno che scolora, cola dalla crosta del Nulla. È Verhoeven che lo modella per primo, in carne e ossa, chioma e occhi, e vomito, sperma, il fluire liberatorio, anzi libertario e beffardo, di ogni secrezione; e lo incastona una volta per tutte nel caos cadente (e ridente) del Fiore di carne, alcova di una disperazione e del tentativo di resistere alla mancanza, amputazione d’io lancinante, in ginocchio sul letto, di fronte alla foto di Olga mentre si masturba stridendo, ansando troia te ne sei andata. Congegno di carne nelle mani di un regista straordinario, carne ebbra, turgida, eppure sfumante in derelizione, in pene moscio impigliato nella cerniera dei pantaloni, ancora esalante di sborra, quel dato di fatto, lattiginosa, morbosa presa di coscienza del proprio svuotamento, del proprio vuoto, tanto più di fronte all’euforica, folle e ottusa pienezza, o tensione a riempirsi, di una delle tante donne di Paul Verhoeven, ma sempre la stessa, forma cava, infinitamente aperta, desertico specchio del Nulla. Gioioso il suo appena dischiuso fiore di carne, pollante, flagrante sotto leggera peluria, come le feci in cui Erik fruga in totale amore, già in totale balia della morte; quel suicidio che è schizzato sulla foto di Olga dopo averla leccata dietro, che apre la voragine di un’alcova a pezzi, di una luce livida fuori, che non è presagio di Niente, ma è quel Niente, quel tutto brulicante, cioè un ente basato sul vuoto. In quanto congegno di continua incarnazione, di secrezione, gioiosa deiezione, corpo vitale, felicitante, cui risvolto è la malinconia più nera impressa per sempre, da quel momento, negli occhi di Hauer, Erik è pronto a ricominciare (si ripulisce, sbratta il loft, riprende a creare, a crearsi), e se lo dice allo specchio, nonostante sappia di portarsi addosso la malattia, quel morbo d’essere pienamente solo nell’altro, per l’altro, assente.