"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Gravidanza, ancora. Dall’altra parte, in Israele. Le amiche raccontano di sangue e aborti, cinicamente, come se nulla fosse. Al tuo ragazzo chiedi di essere picchiata, per provare. Risveglio dei corpi lividi, veri. Poi però resti con l’uomo anziano, stupita da un altro tipo di complicità. Cellulari, teoria dell’X-factor, la ragazza si commuove mentre guarda il video di tanta disinvolta malizia e vulnerabilità. Piange su una panchina mentre fa la guardia ai cani che ha portato a pisciare e cacare. Hadas Ben Aroya, sbuffando e ghignando, precisa: smettete di guardarmi. All Eyes Off Me. Il primo e precedente, già brutalmente narcisista, recitava People That Are Not Me. Me Me Me. Io Io Io. Malinconicamente. Con durezza e certa vaghezza di struttura, tre episodi buttati lì, eppure senza furbizie fotografiche o di montaggio, si vede quel che si vede, ‘fuck the coolness’. E quel tanto di esibizionismo si trasforma in un discorso puramente fisico dove a contare non è l’analisi né il contesto ma la creazione dello spazio.