"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Il matriarcato, con tinte anfetaminiche, si sposta a New York. Podcast (i live intitolati Red Scare che hanno reso famosa Dasha Nekrasova), culti metropolitani, cospirazioni interplanetarie (via Mr. Robot), ingorgo di traumi che si infiltrano nello spazio, l’orribile Jeffrey Epstein che aleggia su tutto e possiede le nostre protagoniste (le prime due ossessionate, la terza per davvero, nella sequenza più pazza, oracolare). Inquiline polanskiane in 16mm, edotte pure di Fulci, Argento e l’indimenticabile Ferrara di Ms. 45. E poi: Eyes Wide Shut (periodo natalizio compreso). Un film infestato. Fin troppo consapevole sovrastrutturato e languidamente soddisfatto di esserlo. Traffici sessuali, ostilità continua tra le persone, paura, tristezza e disomogeneità al limite dell’amatoriale vanno di pari passo nell’esordio di Dasha Nekrasova. Perversione e freschezza inattesa di quando si agisce con poca accuratezza. Anche questo volutamente, ovvio (ma l’idea del 16mm salva tutto). Mescolare la fogna online di insulti e paranoie strampalate con la calda luce del cinema di genere amato. Un vero thriller psicosessuale. Le due coinquiline in fondo vorrebbero essere fermate, Epstein le dovrebbe ridurre al silenzio, questo le renderebbe importanti, confermerebbe le loro peggiori paure. Sono due maniache. L’unica che Epstein possiede davvero è però la terza amica, vero contenitore di traumi che alla fine si masturba con vecchi cimeli d’antiche casate reali e bucce d’arancia. Il film mischia di continuo cose assurde e futili alla rivolta vera e propria contro certo modo di fare film e intendere la lotta di genere. Ma è divertente, di talento e supera il suo stesso vittimismo.