"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Vincente Minnelli. La materialità del sogno (Daniela Turco) - seconda parte

Tuesday, 24 May 2022 00:30

La forza “assorbente” (divorante, aggiunge la Turco) di cui parlava Deleuze, è in realtà quella per cui il cinema di Minnelli sarebbe l’essenza (divoratrice) del cinema stesso, quello in cui più chiaramente si vede che a essere divorato è lo spettatore. Nella vita vera tutto accade a una tale velocità che, razionalmente o meno, si è sempre costretti a una riflessione a posteriori che, a sua volta, chiamando in causa tempo e memoria, non può far altro che rivelarsi inesatta. Per Minnelli il sogno musicale incarna questa verifica incerta e dunque, in quanto pura fuga di colore-immagine-ricordo e intarsio minuzioso di oggetti e scenografie, è la cosa più vicina all’ineffabile della realtà. E non solo il musical. In Minnelli l’immagine, più che mettersi in scena, si addensa, accorcia i tempi della vita con un doppio movimento che li sintetizza e li estremizza insieme, e facendo così, invece di allontanarsene, tocca misteriosamente il momento in cui un evento accade davvero, ci appare reale.

The Clock, Brigadoon, On A Clear Day You Can See Forever (nell’indicare la centralità di questa triade, credo che la mia opinione diverga da quella della Turco)4: tre evidenti remake uno dell’altro, sono a mio parere l’esempio massimo di uno dei più grandi e inspiegabili misteri del cinema: quando, quasi inavvertitamente, si mostra senza specificare, si dà in quanto tale (come un’amicizia che non ha bisogno di spiegazioni). Scrive la Turco su Brigadoon: “Qui, non si tratta più di forzare la realtà attraverso il sogno, ma proprio di sostituirla radicalmente, scegliendo di abitare direttamente dentro la favola, assorbiti per sempre nello splendore, ma anche nella prigione di un sogno. Un progetto che ha molto a che fare con la follia […]” Esiste definizione più precisa di cinema? Esiste film più cinematografico di Brigadoon? Questi tre capolavori sono in effetti tre schegge impazzite che non si limitano all’incontro di un uomo e di una donna, ma raccontano l’impatto non misurabile di due campi energetici prodigiosi che arrivano a piegare in due la città facendola trasvolare in altre dimensioni e, infine, trovando il coraggio di far convergere la morte e la vita su un piano temporale scivoloso e malinconico che chiama in causa il nostro stesso stare al mondo, il rapporto stesso “fra le singole storie e la Storia”. Proprio nelle illuminanti pagine che la Turco dedica a The Clock, appare con chiarezza il cuore del progetto (inconscio) minnelliano, la narrazione fantastica della lotta dell’uomo per la sopravvivenza. La realtà, rivelandosi, incrina spazio e tempo generando un vortice pauroso e bellissimo di mondi possibili e il cinema, senza dare soluzioni, è l’abisso su cui ballare la ballata dell’inconoscibile (non a caso, come si diceva all’inizio, è soprattutto qui che la Turco si riferisce a Jean-Luc Godard, forse proprio il più vicino a Minnelli per coscienza dell’impotenza di tutto di fronte alla Storia).

Ecco, tutto questo libro, al di là delle predilezioni personali per un film invece che un altro, quanto più sembra attenersi ai testi (peraltro magistralmente intrecciati: si veda anche il percorso interno che trasforma con grande acume cineasti in pittori e pittori in cineasti), tanto più si presenta come il racconto di una tensione verso il limite. Tensione in tutto e per tutto flaubertiana (Minnelli con la sua Madame Bovary, letteralmente risucchiata negli specchi, può ben dire Flaubert c’est moi), cioè al tempo stesso l’inseguimento forsennato di un’immagine che sfugge ripetendosi come in sogno e la vanità di questo inseguimento. Esattamente quello che accade quando si scrive una monografia…

Chiamiamo dunque la mia lentezza a parlare del libro di Daniela Turco, una lentezza minnelliana. Paura di affrontare un soggetto che ho sempre pensato non fosse il debordante irregolare che si è alternato amatissimo e odiatissimo (ora anche inattuale) nelle storie del cinema, ma un archetipo vero e proprio, il portatore di un segreto o, addirittura, del segreto perduto del cinema e nel cinema. Soprattutto intimorito dalla lucidità con qui l’autrice guarda il lato oscuro che attraversa la vita e l’arte di questo grande visionario.

 

Lascio perciò alle parole di Daniela la fine di questo breve intervento: “[…] si crede, tuttavia, che la grandezza di Minnelli stia anche nel fatto che, pur rimanendo concentrato sul suo personale progetto estetico, non vi si sia mai per questo rinchiuso, e sia stato al contrario un osservatore particolarmente attento della realtà contemporanea. Anzi, grazie alla sua visione estetica, che non esclude lo sguardo sul mondo, ma lo apre, Minnelli è stato capace di trattare nella sua opera, con sensibilità e rigore, tutti gli aspetti più ambigui e difficili della vita, spesso proprio attraverso le sue esplorazioni nel territorio tra realtà e sogno, e con le immagini dei suoi film, compresi i meno riusciti, ha saputo dire qualcosa di prezioso sulla vita e sulla morte, sulla paura e sulla violenza dei sentimenti, sul conformismo e sulle trappole del sogno americano, sulla società in cui viveva, infine, che come pochi altri ha saputo leggere in profondità”.

 

 

 

4 Questo lo si deve alla grandezza di Minnelli, per cui sarebbe facile indicare altre triadi senza sbagliare di molto: Madame Bovary, The Band Wagon e Some Came Running; An American in Paris, Two Weeks in Another Town e A Matter of Time; Yolanda and the Thief, The Cobweb e The Four Horsemen of the Apocalypse

 

 

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