"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Chi (Mr. Zhang Believes) del cinese Jiongjiong Qiu è ulteriore, eccedente conferma di un cinema che riflettendo sulla stringente, ottusa contingenza (nelle cui pieghe si sedimenta l’enunciato politico, civistico, etico), non può fare a meno di riflettere su se stesso, sulle proprie possibilità di essere rispetto al tempo; di riflettersi come dispositivo di inerzie, attriti, parvenze che trovano linfa nella storia (verso cui cerca la massima rispondenza), pur destrutturandola in eco, cicaleccio, intreccio di scene riverberanti (di oscurità e voci, canzoni) in un teatro di posa, quale luogo di composizione ed elezione dell’opera, cioè una sorta di “gioco del mondo”. Wang Bing, quello, mettiamo, di Jiabiangou, è stato metabolizzato nell’ibridazione del quadro, di cui Jionjiong Qiu conosce i dis-limiti (Bressane), venendo dall’arte figurativa, qualcosa come “aprire un dissipario per l’arcano” (De Barros), la funambolica fenomenologia di palcoscenici che rimandano uno all’altro compenetrandosi strettamente eppure slegandosi e aprendosi come voragini fuori dal tempo. Anzi, un soqquadro, accostando la mimesi di un acciottolato, il suolo permeato di un’acqua di pece, con lo scenario più artato, costruito, che rivela la sua manifattura, dando proprio per questo profondità simbolica alle immagini, montate secondo un meccanismo di drappi, tendaggi astraenti gli sfondi (storici), a fare da contrappunto a sequenze documentali in cui Zhang Xianchi racconta il suo calvario iniziato nel 1957 con l’accusa di essere un reazionario, ma in effetti già agli inizi degli anni ‘50 (stesso periodo mostrato da Jiabiangou), quando ancora studente e intriso di letture comuniste, si scontra con suo padre, filogovernativo, fuggendo di casa.
Qui l’ipertensione delle immagini, tese nei movimenti acuti, finti delle sagome sul proscenio (un espressionismo di bianco e nero catramoso, che intacca anche i siparietti ironici), si allenta nella naturalità di Zhang Xianchi che di fronte alla macchina da presa racconta la sua vita, per divenire stasi contemplativa e dolente di fotografie poste sulla ghiaia, o quadro nero, Nulla, su cui scorre la voce del protagonista: un amalgama di materiale composito che si declina di volta in volta intorno ai limiti fisiologici dell’immagine cinematografica tentandone il tessuto fantasmatico, inerziale, e l’origine (destino) di fissità, per “aprire il dissipario” (questa sua irriducibilità), come avveniva nell’Erice di Centro Historico o nell'Immagine mancante di Rithy Panh in cui il contrappunto (dialettico, riflessivo, retroattivo) al movimento era dato da riprese su presepi popolati da statuette di creta.
È questa oscillazione, questo movimento a strappi della macchina-cinema, nella nebulosa della materia temporale, a dare senso, pur nel dissesto, a Mr. Zhang Believes, tra fughe in avanti e retrospezione sul proprio nulla; e non è un caso che una delle sue apparizioni la chiami “tempesta di nuvole”: una fitta nebbia verde, in cui la Storia si perde, restando solo un’eco nel buio, uno sgocciolare, uno scricchiolare d’assi, inveterato.