"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Qualcosa è cambiato

Daniela Turco

Jim Carrey, alcuni mesi fa, in occasione dell’uscita del sequel, vent’anni dopo Dumb and Dumber, a una domanda sui suoi progetti futuri rispondeva: “Distruggere Hollywood”, aggiungendo che, molto probabilmente, aveva già iniziato a farlo. Dumb and Dumber To corrisponde istintivamente a questo desiderio e lo mette in atto, con lo stoccaggio massiccio di elementi solitamente intrattabili, in quanto radicalmente inappropriati, se non apertamente banditi dalla forma-commedia, fatta eccezione per le leggendarie sperimentazioni, macabre e sublimi, di Wilder e Edwards - via Stroheim - condotte dentro e contro Hollywood, che trovano qui una sorprendente continuità. 

Malattia, handicap, demenza, vecchiaia, cateteri, ospizi, agenzie funebri, disfacimento, scorie e liquami organici di ogni tipo, morte: a squadernarsi c’è un intero catalogo, indigeribile e sovversivo, che riconfigura quei materiali che hanno sempre strutturato il naturalismo, in cui Dumb and Dumber To si potrebbe iscrivere come reperto regressivo, destinato all’autodistruzione, nel micidiale intreccio che lo muove tra esplorazione pulsionale, spostamento e ripetizione.

Harry e Lloyd sono ancora una volta insieme, anche come materializzazione del doppio e autoironico rispecchiamento degli stessi fratelli Farrelly, che li immergono senza scampo in un on the road sgangherato che, ricalcando la serialità infinita di occasioni mancate del primo, non smette di sfuggire, e qui sta la sua grande singolarità, a ogni reale confronto. Niente qui, infatti, sembra più funzionare, dai tempi comici delle gag, disinnescati o largamente sabotati, alla stessa scorrettezza, drasticamente impoverita, dei contenuti. Alla fine, nella coazione a ripetere, qualcosa è davvero cambiato; non si sorride più dell’innocente malizia dei pupazzi di neve con la carota piantata nel posto sbagliato, o di certe pedicure surreali, eseguite a colpi di sega elettrica. Cosa rimane, allora? I resti, l’insopprimibile vitalità negativa delle pulsioni, il defilè degli oggetti “piccolo a”, il poster polveroso di Bo Dereck in Ten, le gabbie per uccellini, ovvero la prigione ossessiva dei tic di linguaggio, il disegno feroce del tempo sui corpi, la forza inarrestabile della regressione, appena interrotta, in uno squarcio poetico, dall’incontro struggente con l’antico furgone a forma di cane, Mutt Cutts, che, come la slitta Rosebud, testimonia l’incursione, in forma di miraggio, di un cinema - e di un discorso - destinato alle fiamme e alla distruzione.

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